15 dicembre 2010

Thirst

Ho scoperto dell'esistenza di Thirst leggendo Players, una rivista dedicata all'intrattenimento su cui scrive anche quella bella personcina che risponde al nome di giopep. Potrei limitarmi a suggerire di leggere la breve recesione che si trova sulle pagine del PDF della rivista, ma non sarebbe bello.

Thirst è un film di vampiri, e no, non è uno dei tanti. È lassù, in cima alla lista dei migliori esponenti recenti del genere (non che io sia un esperto, ma tant'è), insieme a Let The Right One In. Anche perché il regista è Chan-wook Park, che ha diretto tra le altre cose Oldboy. E Park è uno a cui non piace girare film banali e Thirst banale non lo è per niente. Non lo è perché è esteticamente e stilisticamente impeccabile, quasi al punto che lo si potrebbe guardare anche senza sonoro e sottotitoli. Quasi, eh. E poi non lo è perché ha un attore protagonista bravissimo coadiuvato da una altrettanto brava attrice di supporto e una storia che sì è di vampiri, ma tratta l'argomento da un punto di vista originale e particolare.

Insomma Thirst è un gran bel pezzo di pellicola, intenso e che non lesina su erotismo e sangue e che riesce persino a raccontare una storia d'amore dannata.

13 dicembre 2010

Il videogioco dell'anno?

Visto che pochi giorni fa sono stati assegnati i Videogame Awards, mi sembra giusto scrivere anch'io dei giochi migliori dell'anno. Eviterò di fare suddivisioni per genere e piattaforma e mi limiterò semplicemente a parlare dei giochi che mi hanno appassionato di più negli ultimi 12 mesi. E sicuramente me ne dimenticherò uno fondamentale.

Direi che i candidati sono in ordine sparso: Bayonetta, Mass Effect 2, Red Dead Redemption. Manca qualcosa che mi ha davvero esaltato? Monster Hunter Tri avrebbe potuto e dovuto fare parte della lista, almeno sulla carta, ma alla prova dei fatti non si è rivelato una droga come gli episodi su PSP. Poi ci sarebbe Call of Duty: Black Ops, ma a quello dedicherò un paragrafo a parte alla fine.

Dicevamo, giochi belli.

Bayonetta (su Xbox 360) è stato il primo gioco della madonna di questo 2010. Uscito a metà gennaio dopo aver ricevuto 40/40 da Famitsu (che vabbe', lo hanno dato pure a Monster Hunter Tri) e 10 su Edge, ha confermato quanto di buono si era letto in giro ed è uno dei migliori action game mai creati. Con un sistema di combattimento vario, profondo, ma soprattutto sempre divertente, è uno di quei giochi che è, molto banalmente, piacevolissimo da giocare. Ogni scontro è una goduria, impegnativo e gratificante, e graficamente, almeno su Xbox 360, è una vera gioia per gli occhi. Ah, quasi dimenticavo, ci sono pure Bayonetta, la protagonista gnocca con uno stacco di gambe improbabile e la canzone più droga degli ultimi anni.

Mass Effect 2 (su PC), di cui ho già scritto tre volte proprio su questo blog, è, come suggerisce il numerino nel titolo, il seguito di Mass Effect, l'ibrido GdR sparacchino di BioWare. In questo secondo episodio gli sviluppatori hanno deciso di migliorare decisamente la parte di azione, mettendo in secondo piano elementi più ruolistici come la gestione dell'equipaggiamento, scelta che ha fatto storcere il naso a molti. A me, sinceramente, della cosa non è fregato molto, soprattutto perché Mass Effect 2 ha una parte shooter solida, dei dialoghi meravigliosi che non ti fanno venire voglia di saltarli il più in fretta possibile e dei personaggi di supporto fantastici. Insomma è stata una delle esperienze ludiche più coinvolgenti che io mi ricordi.

Per ultimo, e non certo per ordine di importanza, c'è Red Dead Redemption (su Xbox 360). Sviluppato da Rockstar, da molti imbecilli è stato bollato e considerato come un semplice Grand Theft Auto nel West, senza magari nemmeno averci giocato. In realtà, Red Dead Redemption è un gioco che ha ricreato un mondo di gioco così credibile, solido e coerente che spesso affrontavo le lunghe cavalcate tra una destinazione e l'altra ed evitavo di usare il sistema di trasferimento automatico perché era... giusto così, ecco. RDR mi ha fatto sentire davvero nei panni di John Marston, mi ha fatto vivere e assaporare la storia splendida e goduto della compagnia di una serie di personaggi uno più bello dell'altro, grazie anche a una sceneggiatura e dei dialoghi fuori parametro. Come se non bastasse, RDR è anche divertente da giocare, come una marea di cose da fare e delle sparatorie mai noiose.

Ed è per questo che è dall'alto della mia autorità, decido di assegnare al capolavoro di Rockstar il titolo di "Gioco del 2010 preferito da Me Medesimo".
Menzioni d'onore per God of War III su PlayStation 3 e NBA 2K11, anche questo in versione PS3. Assenti giustificati: Demon's Souls, a cui io ho giocato nel 2009 perché comprai la versione americana, e Vanquish (su Xbox 360), che ho comprato, ma al quale, per un motivo o per l'altro, non ho ancora dedicato la necessaria attenzione.

Paragrafo a parte per Call of Duty: Black Ops. Il gioco è uscito a inizio novembre e a tutt'oggi la versione PC è ancora ingiocabile a causa di tutta una serie di problemi tecnici. Treyarch e Activision dovrebbero vergognarsi per aver pubblicato un gioco in questo stato. La speranza è che prima o poi esca una patch che sistemi i problemi, ma nel frattempo il "Premio Vaffanculo Che Ve Possino Ammazza' 2010" va a Treyarch, Activision e il loro Call of Duty Black Ops su PC.

12 dicembre 2010

Teeth

Con colpevole ritardo, finalmente ho visto anch'io Teeth che se non ricordo male al tempo dell'uscita attirò molta attenzione per l'argomento che tratta.

I denti del titolo sono quelli di una biondina tanto carina e adorabile e ragazza immagine di uno quei movimenti di fanatici che predicano nelle scuole americane l'astinenza dal sesso fino al matrimonio. Dei normalissimi denti però non sarebbero un argomento particolarmente stimolante per un film che si presenta come un horror, ma è anche e soprattutto una commedia macabra, e infatti è la vagina della ragazza a essere dentata. Quello della vagina dentata è un mito presente in molte culture e ci sono varie interpretazioni su cosa esso rappresenti: la paura dell'uomo della castrazione e della sessualità femminile più in generale, oppure l'ansia della donna che deriva dalla penetrazione, oppure il desiderio incoscio di divorare il suo compagno.

Quale che sia la teoria che vi ispira di più, quella raccontata dal regista e autore Mitchell Lichtenstein è soprattutto la storia di una ragazza che cresce e diventa consapevole del suo essere diversa, ma soprattutto che impara a fare tesoro di ciò che la contraddistingue invece di esserne terrorizzata e la protagonista Jess Weixler è brava a comunicare la maturazione della sua Dawn. Le scene macabre non mancano, ma a parte il dolore atavico che possono causare nel pubblico maschile, fanno decisamente più ridere che disgustare. Nonostante manchi un po' di ritmo nella parte centrale, Teeth si è confermato come un buon film dotato di una forte vena satirica e macabra e un'intelligenza che stimola lo spettatore.

6 dicembre 2010

14 Blades

Pare che Donnie Yen, il protagonista di 14 Blades (Jin yi wei in lingua originale), sia piuttosto famoso tra gli amanti dei film di arti marziali e pare anche che avesse una parte in Blade II. Io, nella mia quasi totale ignoranza del genere, non sapevo niente di tutto questo. Ed è per questo che ho cominciato a guardare 14 Blades sapendo più o meno cosa avrei visto, ma senza nessuna particolare aspettativa.

C'è da dire che Yen in questo film sembra un po' di plastica, con quella faccia tirata a lucido che sembra appena uscito da un autolavaggio, o forse è merito (o colpa) della saturazione blu che il regista Daniel Lee ha dato a praticamente tutta la pellicola. Ma non importa, perché 14 Blades è un bel filmone epico, con la sua storia di eroiche redenzioni, tradimenti, amori travagliati, assassine belle quanto letali, potenti avidi di potere, il tutto sullo sfondo di una Cina meravigliosa. Ma a essere splendidi non sono solo i paesaggi, è tutta la messa in scena a essere semplicemente sontuosa, grazie in particolare a una attenta cura coreografia dei combattimenti e di molte delle scene "normali".

Con il loro largo uso di fili nascosti, le scene di azione riportano alla memoria quelle di Crouching Tiger, Hidden Dragon, senza forse raggiungerne la stessa eleganza, ma riuscendo comunque a essere coinvolgenti ed emozionanti. E anche la storia, a tratti un po' prevedibile, fa la sua porca figura ed è all'altezza. Insomma, 14 Blades è godibilissimo, e a tratti pure quasi esaltante, per gli amanti delle arti marziali, penso, e pure per tutti gli altri, dai, perché alla fine la trama strizza l'occhio e fa le moine un po' a tutti.

3 dicembre 2010

Exit Through The Gift Shop

Scrivere di Exit Through The Gift Shop è fichissimo, perché mi permette di tirarmela da uno che ne sa a pacchi di cinema e tirare in mezzo nientepopodimenoche Orson Welles e il suo F For Fake. Sì, perché sia Banksy che Welles giocano con due elementi nei loro documentari: l'analisi del concetto di arte e il dualismo tra verità e menzogna.

Quello di Banksy è un documentario su Therry Guetta, in arte Mr. Brainwash, un cineasta francese trapiantato a Los Angeles ossessionato dalla necessità di riprendere con una telecamera qualsiasi cosa gli accada intorno e che voleva realizzare a sua volta un documentario sulla street art e Banksy in un periodo che spazia tra il 1999 e 2008 (mi sembra). In questi 10 anni, Guetta diventerà a sua volta uno street artist e metterà in piedi a Los Angeles una delle più grandi esposizioni di street art della storia, in seguito a quello che era un tentativo da parte di Banksy di distogliere l'attenzione del francese dal documentario.

Di per sé, Exit Through The Gift Shop è un magnifico documentario sulla street art e sui suoi maggiori esponenti, sulla contemporaneità insita in essa e sulla sua temporaneità, considerato che spesso le opere di questi artisti vengono coperte da una mano di intonaco nel tentativo di "ripulire" le strade delle nostre città. Tuttavia, il film/documentario di Banksy è qualcosa di più di non facile identificazione: è un'allegoria critica della commercializzazione dei movimenti artistici e in particolare della street art? Guetta è solo un fantoccio mosso da Banksy? Tutto quello che abbiamo visto è vero o è stata solo una messa in scena, esposizione di Mr. Brainwash inclusa? E tutti quelli che hanno pagato migliaia di dollari per i pezzi di Guetta che cosa hanno acquistato in realtà, opere vere o patacche confezionate ad arte? Queste sono domande senza risposta che impreziosiscono ulteriormente un documentario che va visto anche solo per poter apprezzare la genialità di alcuni degli artisti contemporanei più ispirati. Il breve pezzo su Banksy nella Striscia di Gaza vale da solo la visione.

1 dicembre 2010

Crazy Heart

I protagonisti di Crazy Heart sono due, diciamolo. Il primo è Jeff Bridges, giustissimo vincitore di uno strameritato Oscar per questo ruolo, che si carica in spalla il film fin dalla prima scelta e se lo porta dietro fino alla fine, senza farlo mai cadere anche nei momenti più zoppicanti. Il secondo è la colonna sonora, bella, splendida, emozionante e struggente, che accompagna e fa da contraltare al protagonista Bad Blake, un famoso cantante country caduto ormai in disgrazia, ma anche e soprattutto un uomo di mezza età, prigioniero del suo personaggio, con gravi problemi di salute e alcolismo e con una vita senza affetti reali.

A fare da spalla a Jeff Bridges c'è un cast di ottimi attori, un regista che si fa i cazzi suoi e lascia che Bridges tenga la scena e che ci regala dei colpi d'occhio magnifici sui bellissimi panorami che fanno da sfondo. La storia... vabbe', la storia è quella raccontata milioni di volte e che in altre occasioni non sarebbe stata degna nemmeno di uno sguardo, e ci sono stati pure un paio di passaggi in cui la sceneggiatura mi ha lasciato perplesso, ma un Bridges simile e una colonna sonora del genere renderebbero interessante persino la ricetta della spesa della vecchietta del piano terra.

28 novembre 2010

Shutter Island

La Logorrea, con la L maiuscola, quella che a volte si impadronisce di persone insospettabili come giopep. Oppure di registi come Martin Scorsese, che in Shutter Island si lascia prendere un po' la mano e allunga quello che, con qualche taglietto qua e là in più, sarebbe stato un ottimo film.
Non che così com'è Shutter Island sia brutto, intendiamoci, del resto c'è Leonardo Di Caprio che a me, come attore e anche un po' anche come uomo, piace da impazzire, e poi cribbio, c'è Max von Sydow che mette angoscia solo a guardarlo, però ci sono stati momenti in cui ho sentito che la sceneggiatura la stesse tirando troppo per le lunghe.

Shutter Island è un thriller che non arriva a spaventare, ma riesce nell'intento di mettere a disagio con la sua atmosfera e con i suoi personaggi malati, ma malati per davvero visto che il film è ambientato in una struttura psichiatrica che "ospita" criminali psicopatici di varia natura. L'ospedale e l'isola su cui esso si trova sono poi due personaggi a parte, espressivi e inquietanti come e quanto le persone che li abitano.

Lunghezza a parte, non c'è niente che non vada in Shutter Island e, pur senza essere un film che passerà alla storia del cinema, si lascia guardare con piacere ed è in grado di regalare più di un brivido.

20 novembre 2010

Patrik 1,5

La prima cosa che ho pensato guardando Patrik 1,5 è stata se sia un caso che un film del genere arrivi dalla Svezia e non, che so, dagli Stati Uniti o [ROTFL] l'Italia.
Tratta dall'omonima pièce teatrale, la storia ci è già stata raccontata tante volte: c'è una coppia che non può avere figli, c'è un bambino orfano e problematico in attesa di trovare una famiglia affettuosa, il tutto sullo sfondo di un quartiere periferico di un'ignota cittadina svedese che sembra uscito da un catalogo dell'Ikea, manichini inclusi. A essere diversi sono la coppia e il bambino: la coppia è formata da due uomini omosessuali felicemente sposati, uno medico e l'altro impiegato in una compagnia di non si sa che tipo. Il bambino invece non è bimbo già da un po' e quel 1,5 è al centro in equivoco burocratico che fa arrivare in casa di Sven e Goran un adolescente di 15 anni, il Patrik del titolo, con alle spalle un passato burrascoso e di fronte a sé un futuro altrettanto gramo.

L'argomento del film è delicato e si presta alla retorica della peggior specie, ma fortunatamente la regista riesce a evitarla, limitandosi a raccontare una storia di persone, di come il concetto dei confini di quello che chiamiamo "famiglia" possano e debbano essere estremamente volatili. Il film non sorprende e fa tutto quello che ci si aspetta, nel bene e nel male, ma è una di quelle pellicole che, come si suol dire, scaldano il cuore. Ha anche un umorismo discreto e riesce a scherzare dei pregiudizi, cosa non facile. Non è un film memorabile, ma è perfetto per essere guardato da sotto il piumone quando fuori infuria la tempesta.

15 novembre 2010

Four Lions

Si può mettere qualsiasi argomento al centro di una commedia? Con il suo "La vita è bella", Benigni ha dimostrato che è possibile farlo, che si può ridere e sorridere persino di fronte alle tragedie peggiori, basta avere tatto e intelligenza.
A suo modo prova a fare lo stesso Chris Morris con il suo Four Lions. L'argomento stavolta è il terrorismo islamico, quello "casalingo" per la precisione, portato avanti da cittadini nati e cresciuti in Occidente e radicalizzati per motivi differenti. I leoni del titolo sono quattro (più uno, diciamo) musulmani inglesi che vogliono organizzare un attacco terroristico sul suolo britannico. Non sono esattamente i terroristi più svegli del mondo e, a parte il leader di fatto del gruppo Omar, gli altri sono dei perfetti imbecilli, ignoranti e refrattari a qualsiasi influenza positiva. Persino Omar, sposato e padre di un figlio, è cieco a quanto di buono ha nella sua vita e pensa solo al paradiso, alla gloria eterna che il martirio gli assicurerà. È forse questo l'aspetto più inquietante della vicenda, insieme al fatto che alcuni dei terroristi non sembrano avere ben chiaro perché sono disposti a farsi saltare in aria.

L'umorismo di Four Lions è nero, amaro. Le risate che strappa sono sincere, ma altrettanto sincera è la realizzazione che si sta ridendo di qualcosa che non potrebbe essere più lontano dall'idea stessa di comicità, e questa comprensione lascia in bocca in sapore terribile. Il film di Morris lavora su due livelli, quello della commedia e quello della tragedia, e li porta avanti parallelamente e contemporaneamente con tempismo e coerenza narrative notevoli. E alla fine ti lascia con un sorriso triste stampato in faccia, perché dentro di te sai che forse non c'era proprio un cazzo da ridere, ma lo hai fatto lo stesso perché non se ne poteva fare a meno.

27 ottobre 2010

The Ghost

È sempre bello vedere che al mondo ci sono ancora autori in grado di fare thriller convolgenti senza dover per forza tirare fuori improbabili colpi di scena a ripetizione. The Ghost è il film che ne è la prova, diretto da Roman Polanski, co-autore della sceneggiatura insieme a Robert Harris che ha scritto il libro omonimo da cui è tratto il soggetto della pellicola.

L'uomo nell'ombra del titolo italiano, di cui non ci viene nemmeno mai detto il nome, è interpretato da Ewan McGregor e di professione fa il ghost writer, uno di quegli autori che scrivono libri per conto di altre persone che si limitano a mettere il loro nome sulla copertina. In questo caso quella persona è un ex primo ministro del governo britannico, con la faccia di Pierce Brosnan, che vuole pubblicare le sue memorie. Tutto sembrerebbe normale, se non fosse per l'insignificante dettaglio che il predecessore del ghost writer è stato trovato morto affogato qualche giorno prima della sua assunzione, in seguito a quello che le autorità hanno considerato un semplice suicidio.

The Ghost è il classico thriller di sceneggiatura: ha uno svolgimento logico e lineare, non ci sono eventi lasciati inspiegati né dubbi insoluti, i personaggi dicono o fanno sempre cose che è logico aspettarsi da persone reali. Si rifa alla tradizione del genere di Alfred Hitchcock, con una persona comune che si ritrova in una situazione inizialmente normale e che diventa sempre più complicata. Ma non è solo l'ottima sceneggiatura che funziona, The Ghost coinvolge fino all'ultima scena anche perché è girato con da uno che di cinema ne sa a pacchi, che non sbaglia un'inquadratura e sfrutta al meglio l'ottima vena di Ewan McGregor. Impossibile poi non notare le analogie tra l'ex primo ministro Adam Lang e l'ex leader laburista Tony Blair, similitudini che danno al film quel tocco di realismo in più che non guasta.
Dai, anche i dinosauri come Roman Polanski hanno ancora qualcosa da dire.

24 ottobre 2010

Micmacs

Alien: Resurrection a parte, di cui non ho un gran ricordo, fatta eccezione per Wynona Rider, i film di Jean-Pierre Jeunet hanno in comune un'estetica e uno stile particolari e il suo lavoro più recente, Micmacs, non fa eccezione. E così ritroviamo i soliti personaggi bizzarri, con le loro manie e le loro fissazioni; sono persone che faticano, per un motivo o per l'altro, a integrarsi nel mondo della gente "normale", che vivono quasi invisibili ai margini della società, attirati tra di loro come da un'affinità elettiva.
Il gruppo di cui finisce per far parte Bazil, il protagonista di Micmacs, è appunto un gruppo eterogeneo di fenomeni da baraccone, una famiglia atipica che funziona nonostante le sue stranezze. Bazil è a sua volta piuttosto particolare, dopo un'infanzia segnata dalla morte sul lavoro del padre artificiere, la conseguente pazzia della madre e un collegio da cui fugge con un semplice trucco. 30 anni dopo Bazil ha ancora un incontro poco piacevole con le armi, stavolta con un proiettile vagante che si va a conficcare nel suo cervello, senza ucciderlo, ma tenendolo costantemente a rischio di attacchi simil-epilettici e, tanto per gradire, un colpo fulminante.

La storia di Micmacs, la lotta di Bazil contro le due multinazionali che hanno prodotto la mina che ha ucciso suo padre e il proiettile che riposa nella sua testa, è semplice semplice, senza particolari sorprese o colpi di scena. Il valore di Micmacs risiede nell'immaginazione del suo regista, che riesce ad arricchirlo di piccole, grandi trovate narrative e visive che tengono in piedi il film. A me è piaciuto, ma Micmacs non ha la forza di coinvolgere emotivamente come Amélie e se non si gradisce lo stile di Jeunet, forse è meglio lasciar perdere.

16 ottobre 2010

Buried

Un uomo in una scatola di legno sotterrata da qualche parte nel deserto iracheno. E basta. Queste sono le premesse di Buried, diretto e montato dallo spagnolo Rodrigo Cortés, scritto da Chris Sparling e girato con un budget minuscolo, per l'industria cinematogrofica, pari a tre milioni di dollari.
L'uomo nella scatola è Paul Conroy, interpretato da Ryan Reynolds, un autista di camion che lavora in Iraq per una delle tante ditte appaltatrici presenti in Medio Oriente e che si ritrova nella scatola di cui sopra in seguito a un attacco da parte di non meglio precisate forze irachene. Dentro la scatola Conroy trova anche un accendino e un telefono cellulare con il quale comunicare con l'esterno.

Contrariamente a tutte le attese, Buried funziona. Il film è girato interamente all'interno della scatola e Conroy è l'unico di cui vediamo la faccia. Il resto dei personaggi è presente solo come voci che giungono attraverso il cellulare. Molto del merito va sicuramente a un Reynolds che riesce a dare una prova fisica e intensa nonostante lo spazio angusto in cui si ritrova per tutto il film, ma anche la sceneggiatura e il montaggio funzionano, riuscendo a ravvivare l'interesse dopo ogni telefonata. Durante la visione mi aspettavo sempre una caduta di stile, uno sviluppo improbabile o stupido, e invece il film mi ha sorpreso mantenendo una coerenza solida e inattaccabile per tutto la sua durata, con solo un paio di passaggi che mi ho gradito meno del resto.
Da un punto di vista meramente tecnico, Buried è un grandissimo successo, riuscire a rendere interessanti 95 minuti girati all'interno di una scatola non è cosa da tutti, ma funziona anche come film perché crea una forte empatia tra il pubblico e il povero Conroy e un'atmosfera di tensione e claustrofobia costante nonostante, o forse soprattutto grazie a, i pochi elementi narrativi presenti.

11 ottobre 2010

Mesrine

Jacques Mesrine è uno tosto: è belloccio, tira su figa a pacchi senza problemi, ha la parlantina adatta a trarsi d'impaccio in quasi qualsiasi situazione, è capace di farsi rispettare, ha successo sul lavoro. Peccato che come carriera abbia scelto di fare il criminale, specializzato nelle rapine in banca, ma con escursioni nel mondo dei rapimenti e dei furti con scasso, e numerosi omicidi a suo carico. Ah, come se non bastasse, è un personaggio reale.

La sua storia è raccontata in due film, L'instinct de mort e L'ennemi public n°1, il primo dei quali è basato sull'autobiografia che Mesrine scrisse durante uno dei suoi numerosi soggiorni in carcere. Tuttavia, il regista si premura di sottolineare all'inizio di entrambi come ogni film sia un lavoro di finzione e che, in quanto tale, non possa riprodurre fedelmente la complessità della vita umana.

Della durata totale di circa quattro ore, i film, come ovvio che sia, sono due gangster movie che seguono la vita di Mesrine dai suoi inizi come semplice rapinatore, passando per i numerosi exploit criminosi su entrambi i lati dell'oceano Atlantico che lo hanno portato a vedersi riconoscere da parte di stampa e autorità il titolo di nemico pubblico francese numero uno, fino alla sua morte avvenuta nel 1979 alla periferia di Parigi in quella che sembrò a tutti gli effetti un'esecuzione sommaria da parte della polizia, incapace per quasi vent'anni di fermare legalmente e una volta per tutte Mesrine (che ovviamente fu anche capace di fuggire più volte di prigione).
Interpretato da un bravissimo Vincent Cassel, Jacques Mesrine è un personaggio carismatico che incarna perfettamente il ruolo del ladro (quasi) gentiluomo che riesce ad accattivarsi stampa e pubblico nonostante fosse tutt'altro che un santo che non si faceva scrupoli a sparare in mezzo alla strada nel tentativo di fuggire dalla polizia. Crea nello spettatore la fastidiosa sensazione che si prova quando si fa il tifo per uno dei cattivi e il regista non fa molto per evitare che questo accada. Ma Mesrine non era un semplice criminale, era anche un personaggio pubblico, perfettamente a proprio agio davanti ai giornalisti e davanti alle telecamere. La sua vita ricorda quella di John Dillinger, il famoso gangster americano degli anni '30, nel modo in cui diventò quasi dipendente dalla propria fama al punto da non poterne fare più a meno.

Dei due, il primo film è sicuramente il più equilibrato nella narrazione, anche se forse avrebbe dovuto analizzare maggiormente l'impatto della partecipazione alla guerra d'Algeria sul giovane Mesrine, mentre il secondo si dilunga troppo verso la fine in aspetti dell'evoluzione di Mesrine che, per quanti importanti, appesantiscono lo scorrere del film nonostante ci sia molta più azione, ma per il resto sono ottimi esempi di film biografici con un personaggio decisamente fuori dal comune.

8 ottobre 2010

Serie di simboli

DLIN DLON
Interrompiamo la normale pubblicazione di post sull'intrattenimento per una riflessione. Ci scusiamo per gli eventuali disagi arrecati.

A meno che non siate intrappolati insieme ai poveri minatori cileni, la notizia del momento è l'omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne scomparsa a fine agosto e ritrovata cadavere qualche giorno fa in seguito alla confessione dello zio, con tutti i particolari cruenti del caso.
La storia ha poi avuto un risvolto grottesco e crudele nella scoperta in diretta a Chi l'ha visto della confessione dello zio, mentre la madre della ragazzina si trovava proprio a casa del cognato in collegamente diretto con la trasmissione, ma di questo ne parla altrove qualcuno meglio di quanto potrei mai fare io che non ho visto il programma in TV.

Quello che invece mi passa per la testa mentre scrivo questo post è il fiume in piena di reazioni della ggggènte comune, del popolo di Facebook e di tutti quelli che hanno seguito la vicenda con svariati gradi di attenzione. Reazioni che vanno dal pacato all'aggressivo e violento, e che sfociano in roba come quella qui sotto.



Al di là di ogni commento che si possa fare sulle frasi raccolte nel video, mi piacerebbe immaginare un mondo in cui la pena di morte esiste davvero, ovunque. Un mondo in cui però, un po' come accade nei paesi anglosassoni quando si è chiamati a fare parte di una giuria popolare, a chi dice qualcosa del tipo "Io a quello lo appenderei per le palle e lo torturei per giorni fino a farlo morire di dolore" arrivasse una telefonata che dicesse: "In data XX/YY Lei ha espresso il desiderio di appendere per le palle e torturare per giorni fino a farlo morire di dolore Pinco Pallo, reo confesso del reato tal dei tali. In quanto Autorità Superiore che tutto vede e tutto sente, La informiamo che tra poco degli uomini verrano a prenderLa per portarLa in una località segreta dove potrà mettere in pratica quanto da Lei dichiarato. Perché sa, a Noi piace la gente che fa seguire i fatti alle parole e i quaqquaraqua non li sopportiamo proprio. Ah, quasi dimenticavamo: se non terrà fede alle Sue parole, La prenderemo a calci in culo fino a casa." Una situazione tipo un torture porn qualsiasi, torturatore e vittima chiusi in una stanza con tutto l'occorrente per mettere in pratica quanto dichiarato.

Ho paura di pensare a quali risultati potrebbe generare la situazione di cui sopra. Magari scopriremmo che in fondo la ggggènte non è poi così cattiva e che forse forse c'è ancora un barlume di speranza per il genere umano. Oppure potremmo finire per ritrovarci in un mondo più di merda di quanto avremmo mai potuto immaginare.

6 ottobre 2010

The Inbetweeners

Visto che How I Met Your Mother sta peggiorando a vista d'occhio e, salvo miracoli, dubito che riuscirò a sopportare ulteriormente la noia probabile dei prossimi episodi, è giunto il momento di trovare una nuova serie televisiva comica per sostituirla.

La scelta è ricaduta su The Inbetweeners, telefilm inglese prodotto da Channel 4 di cui sono già state trasmesse due serie e la cui terza è attualmente in programmazione. Ogni episodio dura poco più di 20 minuti e, come da tradizione della televisione inglese, ogni serie è composta da sei sole puntate. Per gli interessati, i cofanetti dei DVD delle prime due sono già disponibili e a fine mese sarà in vendita pure il terzo.

I protagonisti sono quattro adolescenti inglesi e il telefilm li segue nella loro tipica vita da studenti maschi tra scuola, ragazze e sbronze. Lo fa però con il solito piglio comico britannico che ti fa ridere di gusto, ma anche vergognare per i protagonisti e le situazioni imbarazzanti in cui si ritrovano. Anzi no, non ci si ritrovano, ci si ficcano con le loro mani e ne pagano le giuste, ed esilaranti, conseguenze.
Gli autori sono spietati nella rappresentazione della vita dei quattro protagonisti, e non ho idea di quanto possa essere accurata, ma il coraggio con cui usano qualsiasi situazione per fare commedia è ammirevole e spettacolarmente divertente. Il livello dell'umorismo talvolta è un po' grezzo, ma è anche tremendamente azzeccato e imbarazzante come solo le migliori produzioni televisive inglesi sanno fare. È per questo che The Inbetweeners è con molta probabilità una dei telefilm comici migliori attualmente in circolazione.

5 ottobre 2010

The Town

Ok, bisogna farsene una ragione. Oltre a essere bello come un dio greco (ma non quanto Jude Law, ovviamente), a essere sposato con quella gran gnocca di Jennifer Garner, ad avere probabilmente una discreta quantità di soldi, Ben Affleck è pure un buon attore e, soprattutto, un gran bel pezzo di regista. Già con Gone Baby Gone, il suo film d'esordio, ne aveva dato dimostrazione, ma qualcuno avrebbe potuto attribuire il tutto alla fortuna dei principianti. Ed è con il suo nuovo film, The Town, che conferma quanto di buono aveva mostrato tre anni fa dietro la macchina da presa.

Basato sul romanzo Prince of Thieves di Chuck Hogan, The Town è un thriller ambientato a Boston, MA, la città natale di Affleck. Narra di quattro amici di infanzia, nati e cresciuti a Charlestown, un quartiere di Boston famoso per aver prodotto più rapinatori di banche e furgoni portavalori di qualsiasi altra parte del mondo. I quattro amici, ovviamente, sono anche loro dei rapinatori, e sono dannatamente bravi. La mente è Doug MacCray, interpretato da Affleck, mentre uno degli altri membri della banda è l'irascibile e impusivo Jim/Jem, che ha la faccia di Jeremy Renner. Durante una rapina in una banca, i quattro, contrariamente alle loro regole non scritte, rapiscono la direttrice per coprirsi le spalle durante la fuga. E ovviamente la donna lascerà il segno. Del resto come non potrebbe, con la faccia di Rebecca Hall?

The Town segue una strada già percorsa molte volte in precedenza, ricorda a varie riprese e per motivi diversi Heat, Point Break e altri film di genere, ma riesce lo stesso ad appassionare e coinvolgere come solo i grandi film sanno fare. Il merito è sicuramente di una sceneggiatura e un copione di classe, ma anche di un cast azzeccattissimo in tutti i ruoli. Il ritmo narrativo è dosato con grande capacità e in due ore di durata non c'è un solo momento che annoi.

22 settembre 2010

Hairspray



Tiè, la recensione di un film più semplice non si poteva scrivere. Vi piace la canzone qui sopra (e come non potrebbe)? Bene, guardate Hairspray. Non vi piace? Uccidetevi. No, dai, sul serio, come fa a non piacervi? Comunque, se la canzone non fosse abbastanza, pensate a un musical spettacolare con un cast composto da John Travolta travestito da donna grassa, Michelle Pfeiffer che fa la MILF razzistella reazionaria, Christopher Walken che fa Christopher Walken, con persino gente insopportabile come Amanda Bynes e Zac Efron a fare la loro porca figura e con l'esordiente Nikki Blonsky che è brava quanto pesa.

Basato sull'omonimo musical di Broadway, basato a sua volta sull'omonimo film del 1988 diretto da John Waters (e che appare in un breve cameo all'inizio di questo rifacimento), Hairspray è un musical allegro e divertente che trascina grazie a una colonna sonora meravigliosa e un cast indovinatissimo che chiaramente si diverte quanto lo spettatore. L'ambientazione anni '60 dona al tutto un gustoso tocco retrò e permette agli autori anche di accennare una rappresentazione delle condizioni sociali che vigevano al tempo in una città americana come Baltimora, argomento sicuramente serio, ma trattato con tatto e con la stessa allegria che contraddistingue il film.

20 settembre 2010

Cosa c'è stasera in tv?

Come da tradizione, con l'arrivo dell'autunno, ricominciano sui canali americani molte delle serie televisive più famose. Io ne seguo regolarmente qualcuna, quindi facciamo il punto della situazione.

The Big Bang Theory (giunta alla quarta serie)
Situation comedy creata da Chuck Lorre, è stata una delle sorprese più piacevoli degli ultimi anni. All'inizio sembrava che gli unici spunti di interesse fossero lo stato di sfigati senza possibilità di recupero dei quattro personaggi maschili principali e tutti i riferimenti alla cultura geek moderna, ma si è poi rivelata una serie divertente e sempre piacevole. Forse ha il difetto di sfruttare troppo il personaggio di Sheldon, ma è anche vero che a volte i risultati sono semplicemente esilaranti.

How I Met Your Mother (giunta alla sesta serie)
Ho comprato e letteralmente divorato in pochi giorni i cofanetti dei DVD delle prime tre serie di questo telefilm che parte da uno spunto piuttosto interessante: un padre (voce fuori campo di Bob Saget) racconta ai suoi due figli (tra cui Lindsy Fonseca, la Katie di Kick-Ass) come ha conosciuto la loro madre. Peccato che dalla quarta serie in poi, la storia della madre faccia sempre meno capolino negli episodi, sostituita da situazioni e vicende che, nella migliore delle ipotesi, fanno appena sorridere. In particolare, Ted Mosby, il tizio alla ricerca della fantomatica madre, è uno dei personaggi più pedanti e fastidiosi degli ultimi anni. I due personaggi di Lily e Barney sono la vera forza trainante dello show, ma anche loro sono stati travolti dal fiume di mediocrità in cui sta affogando il telefilm. Seguirò le prime puntate della nuova serie, nella speranza che torni ai livelli delle prime tre, ma se la qualità sarà quella delle ultime due, la abbandonerò senza troppi rimpianti.

Chuck (giunta alla quarta serie)
Questo telefilm è partito in sordina ed è stato più volte a rischio di essere cancellato. Che sarebbe stato un vero peccato, perché Chuck è una serie discretamente originale, piacevole e divertente con due protagonisti bravi e belli (Zachary Levi e Yvonne Strahovski) e tutta una serie di personaggi comprimari che giustificano la loro presenza con gag e battute che strappano più di un sorriso. E poi c'è l'immancabile sottotrama romantica che rende il tutto più piacevole e dolce. Ah, la trama. Il Chuck del titolo è un ragazzo come tanti che lavora in un negozio di elettronica che viene assunto dal governo americano perché nel suo cervello sono stati involontariamente scaricati tutti i file riservati dei servizi segreti di tutto il mondo.

NCIS (giunta all'ottava serie)
Questo è il mio guilty pleasure. Praticamente è JAG incontra CSI: un poliziesco ambientato nel mondo della marina militare americana. Cosa rende NCIS così irresistibile? I personaggi sono tutti interessanti a loro modo, loro relazioni credibili e i dialoghi sono scritti con mestiere e bravura e sopperiscono alle non sempre irreprensibili trame dei vari episodi. Alla fine la risoluzione dei casi è moderatamente interessante, quello che mi prende è il veder crescere i personaggi, e finora gli autori sono stati bravissimi sotto questo punto di vista.

Glee (giunta alla seconda serie)
Questo lo seguo per modo di dire, visto che ho tutta la prima serie ancora da vedere, ma visto che la seconda inizia a giorni, mi sembrava giusto parlarne. È un musical sulla falsariga di High School Musical, ma senza le coreografie elaborate del film Disney. Prima o poi lo guarderò, giuro, ma intanto mi godo questo filmato meraviglioso.

Questi sono i telefilm che seguo che stanno per ricominciare, di quelli conclusi da poco (tipo True Blood), attualmente in corso o che riprenderanno più avanti ne parlerò (forse) un'altra volta.

19 settembre 2010

The Girlfriend Experience

Ci sono due modi di parlare di The Girlfriend Experience: il primo è facendo finta di non sapere chi sia Sasha Grey, mentre il secondo è ammettere di sapere che la ragazza è una pornostar che alla giovane età di 22 anni ha più di 150 film al suo attivo. Io lo ammetto e no, non li ho visti tutti.

La scelta della Grey per il ruolo di Chelsea, la escort protagonista di questo film diretto Steven Soderbergh e sceneggiato da David Levien e Brian Koppelman (gli stessi di Ocean's Thirteen), non è casuale. La ragazza intanto dimostra molta più capacità di recitare di quanto mi aspettassi, soprattutto considerato che i dialoghi sono in gran parte improvvisati dato che Soderbergh rivelava giornalmente quali scene avrebbero girato. E poi il suo approccio al sesso, distaccato e mercenario, è molto simile a quello di Chelsea, nel modo in cui entrambe separano in maniera distinta e ferrea la loro personalità reale da quella professionale. Ma i servizi di Chelsea non sono solamente un torbido affare di sesso: lei offre ai propri clienti la "girlfriend experience" del titolo, vale a dire che assumerà in tutto e per tutto il ruolo della fidanzata dei suoi clienti, con i quali potrebbe anche limitarsi a parlare per ore della situazione finanziaria degli Stati Uniti. Ambientato nel 2008 nei mesi che hanno preceduto le elezioni presidenziali che hanno visto vincitore Barack Obama, la crisi economica e finanziaria è un argomento che torna spesso nei dialoghi del film.

Realizzato in maniera volutamente artigianale, con movimenti di camera scomposti, primi piani troppo ravvicinati e sonoro in presa diretta dal volume non uniforme, il film mostra la solita bravura di Soderbergh dietro la cinepresa. Ammetto di avere un debole per il suo stile, anche quando il film potrebbe essere meglio. Questo è il caso di The Girlfriend Experience, che soffre di una narrazione incidentale che non pone la necessaria importanza su alcuni dettagli e che soprattutto all'inizio sembra mancare di una direzione definita, con scene che sembrano più conversazioni ascoltate per sbaglio che non vere scene dirette da un regista. Tuttavia, quando il regista rivela finalmente un filo conduttore e si riesce a rimettere insieme i pezzi della vicenda, si ottiene un film atipico, freddo e sperimentale, probabilmente non facile da guardare, e per qualcuno persino noioso, ma con una protagonista che stranisce e temi che non lasciano indifferenti.

16 settembre 2010

Kick-Ass

Dopo la parziale delusione di Scott Pilgrim, ho deciso di rischiarne un'altra e di guardare un altro film tratto da un fumetto che mi è piaciuto, e la scelta è ricaduta su Kick-Ass, film tratto dalla graphic novel scritta da Mark Millar (quello di Wanted) e disegnata da John Romita Jr. "Tratto" è forse un'esagerazione, probabilmente sarebbe più giusto dire "liberamente ispirato", ma aspettiamo ad affrontare questo argomento.

Kick-Ass, il fumetto, ha sì a che fare con i supereroi, il loro ruolo nella società moderna, le loro responsabilità verso le altre persone e tutte le altre menate accessorie, ma solo di passaggio; è soprattutto la storia di un ragazzo come tanti, appassionato di roba da sfigati come i fumetti, che decide di conciarsi come un emerito imbecille e di mettersi a fare il supereroe senza avere nessun potere sovraumano che possa salvargli il culo o una qualche minima capacità di difesa personale per evitare di prendersi una coltellata in pancia.
Il film fa più o meno la stessa cosa fino a circa metà del film, ma poi il regista Matthew Vaughn, quello di Layer Cake e Stardust, decide che il fumetto non era abbastanza allegro e positivo per il pubblico cinematografico e decide di renderlo più potabile e di ammorbidirlo, oltre che a cambiare una serie di dettagli più o meno importanti. Queste modifiche non rovinano il film, fortunatamente, che rimane comunque piacevole e divertente, ma tradiscono lo spirito del fumetto, ed è un peccato. Perché il Big Daddy di Vaughn non è il povero illuso di Millar? Perché Kick-Ass diventa una specie di Iron Man nel finale? Ma soprattutto, per quale cazzo di motivo Katie la dà con grande entusiasmo e trasporto a Dave (l'alter ego di Kick-Ass) nel retro del negozio di fumetti?!

Ma vabbe', alla fine queste sono seghe mentali da fissati, e per questo possiamo anche fregarcene allegramente. Preso come film a sé stante, Kick-Ass fa il suo porco lavoro sotto praticamente tutti i punti di vista: è realizzato con attenzione, gli attori sono azzeccati, i personaggi e la storia funzionano. Peccato solo che Vaughn, invece di seguire la strada tracciata dal fumetto e di fare un film originale per davvero e diverso dagli altri, abbia preferito giocare sul sicuro e presentarci la solita pellicola all'insegna del "vogliamoci tanto bene".

P.S. Grassa risata d'obbligo per la mancata distribuzione in Italia di questo film.

13 settembre 2010

State Of Play

Non so perché, ma generalmente non sono attirato da film come State of Play. Forse fanno parte di un genere che non mi ispira particolarmente, anche se poi di solito, se sono belli ovviamente, mi piacciono.

Ed è questo il caso, perché State of Play è un gran bel pezzo di pellicola. Cioè, non è che la cosa possa sorprendere più tanto, perché è diretto dal Kevin Macdonald di The Last King of Scotland e tra gli sceneggiatori c'è anche Tony Gilroy, non proprio l'ultimo degli imbecilli. Per la cronaca, il soggetto è tratto dall'omonima serie televisiva trasmessa dalla BBC nel 2003.

State of Play è un thriller politico i cui intrighi si svolgono nelle sale del congresso americano e negli uffici di un giornale di Washington. Russell Crowe, che mamma mia quanto s'è lasciato andare, fa il giornalista, mentre Ben Affleck, che è ancora bello come un dio greco invece, fa il politico. Rachel MacAdams fa la gnocca (è anche brava, ci mancherebbe, non sono mica uno sporco maschilista) e quando le avanza tempo fa anche la giovane blogger che aiuta Crowe a risolvere il mistero.

In State of Play c'è tutto quello che serve per fare un thriller di qualità. C'è un regista bravo che sa dosare i tempi e gestire con abilità dialoghi e scene d'azione. C'è una sceneggiatura solida e senza buchi, ci sono degli attori bravi e convincenti (Helen Mirren rulla), ci sono interessanti temi di attualità. Gli unici difetti sono qualche colpo di scena di troppo nel finale, ma le oltre due ore di durata passano in un piacevolissimo baleno.

10 settembre 2010

Scott Pilgrim vs. The World

Sottotitolo: Il Fumetto vs. Il Film. Sottotitolo del sottotitolo: Scott Pilgrim vs. Michael Cera.

Premessa doverosa. Scott Pilgrim vs. The World è uscito il 25 agosto qui nel Regno Unito, mentre in Italia esce a [ROTFL] fine novembre.

Per la trama facciamola semplice, dai: Scott Pilgrim è un film di un ragazzo che incontra una ragazza, con l'aggiunta di sette ex (di lei) intenzionati a uccidere Scott. Ah, è ambientato in Canada, a Toronto.

E il film?

Ora, generalmente io me ne strafrego di paragonare un film al materiale di origine, in questo caso il fumetto in sei volumi creato da Bryan Lee O'Malley e che è davvero spettacolare, pieno di riferimenti a una tonnellata di videogiochi e immerso totalmente nella cultura moderna e giovane, senza però ridicolizzarla o abusarne. Anzi, cerco deliberatamente di evitare di farlo perché sono convinto che un film debba piacere o meno per i suoi pregi e difetti. Però, e però, in questo fatico proprio a non farlo.
Prima di tutto perché c'è Michael Cera nei panni di Scott Pilgrim, scelta che mi ha convinto poco fin dall'inizio. Michael sembra davvero un pezzo di pane, e poi con quella faccia da pesce lesso che si ritrova è riuscito a mettere incinta Ellen Page in Juno, quindi massimo rispetto, però finora gli ho visto fare sempre fare una variazione dello stesso personaggio, un po' come Jesse Eisenberg, con il quale ha confessato in un'intervista di venire spesso confuso, e non penso che sia solo una combinazione. Michael Cera convince quando Scott è timido, sfigato e confuso, ma non fa altrettanto quando dovrebbe tirare fuori le palle come fa il suo personaggio nel corso del film. Verrebbe da urlargli "Sì, ok, però adesso incazzati sul serio e finiscila di fare finta". Il tutto è poi amplificato dal fatto che è circondato da un cast di giovani attori davvero bravi che finiscono per fargli fare una figura barbina.

Però forse sono un filino ingiusto con Cera, perché non è colpa sua se Scott Pilgrim è, molto semplicemente, scritto male. I dialoghi mancano di ritmo e mostrano solo a sprazzi la brillantezza alla quale il regista Edgar Wright ci aveva abituato in Shaun Of The Dead e Hot Fuzz. Il che sorprende, perché nel fumetto facevano spaccare dal ridere. Perché non accade lo stesso nel film? Forse la differenza sta nel fatto che mentre nel fumetto i combattimenti erano nettamente la parte meno interessante e l'interazione tra i vari personaggi era il suo punto di forza, nel film avviene il contrario. A salvare Scott Pilgrim sono una regia e un montaggio sorprendenti per creatività visiva e stilistica e una colonna sonora spettacolare a cui avrebbero dovuto lasciare decisamente più spazio.
Scott Pilgrim è come una ragazza bellissima che ti ipnotizza con la sua bellezza e con i suoi occhi, ma che poi ti fa cadere i coglioni di schianto appena apre bocca. Boh, forse mi aspettavo troppo, ma ci sono rimasto male, ecco.

Ora torno ad ascoltare la colonna sonora.

7 settembre 2010

The Taking of The Pelham 123

Non deve essere facile essere Tony Scott. Già mi immagino alle feste o altre occasioni sociali conversazioni tipo:
"Piacere, Tony. Tony Scott."
"Ah, ma sei mica parente di quello di Blade Runner?"
"Sì, è mio fratello. E faccio anch'io il regista."
"Ma pensa. Certo che Blade Runner era proprio bello. Tu invece che hai fatto?"
"Ah, ne ho fatti molti, come Top Gun, The Last Boyscout e True Romance."
"Ah, capisco..."
Magari questa storia va avanti dai tempi della scuola, con Ridley che faceva il bel tenebroso intellettuale ed era il cocco di mamma mentre Tony che passava le serate al pub a fare le gare di rutti con gli amici. Poraccio, non lo invidio.

The Taking Of The Pelham 123, titolo originale inglese che non sarà evocativo [ROTFL] come quello italiano, ma fa comunque la sua porca figura, è in tutto e per tutto un film del buon Tony. È un thriller mascherato da film d'azione che gioca a fare il thriller, anche ci si mette poco a capire il segreto del thriller. Ci sono pure due personaggi principali ottimi interpretati da Denzel Washington e un John Travolta che gigioneggia come al suol solito, e ci sono John Turturro e James Gandolfini a fare i bravi comprimari.

The Taking Of The Pelham 123 è un bel film solido e fatto con mestiere, soprattutto grazie agli ottimi dialoghi. Già, perché persino in un film Tony Scott ci possono essere dei dialoghi scritti come si deve. Peccato solo che Tony ogni tanto si lasci andare un po' troppo con i movimenti di telecamera inconsulti e il montaggio sincopato che fanno un po' troppo video musicale, e peccato anche che il finale sembri un po' fuori posto in un film come questo. È forse un filino freddo, con tutto così preciso e al suo posto che sembra mancare un vero coinvolgimento emotivo, ma oh, poteva andare molto, ma molto peggio.

3 settembre 2010

The Road

Del bellissimo libro omonimo di Cormac McCarthy ne ho già scritto in precedenza, stavolta tocca al film diretto da John Hillcoat.
La storia è sempre la stessa e non ho notato particolari differenze rispetto al libro, a parte forse far intravedere la catastrofe che ha portato alla distruzione di tutto (senza comunque spiegarne cause né niente del genere), quindi se volete sapere di che si parla, cliccate sul primo link di questo pezzo.

Il film di The Road cattura alla perfezione tutti i pregi del libro: la desolazione del paesaggio e quella emotiva dei personaggi, l'orrore di vedere l'involuzione degli essere umani costretti alle peggio nefandezze pur di sopravvivere, la pressoché totale mancanza di colori e di una anche flebile luce di speranza. La narrazione è lenta e arida, ma concentra gli eventi importanti in un tempo minore, risultando forse (ma molto forse) meno indigesto del libro. Non ha la forza evocativa della prosa essenziale di McCarthy, ma riesce comunque a rappresentare con efficacia lo spettro di un mondo che non c'è più e a comunicare con efficacia la lotta continua dei personaggi tra la disperazione più nera e la voglia di vivere.
Ah, dimenticavo: Viggo Mortensen nel ruolo del padre e Kodi Smit-McPhee in quello del figlio (entrambi senza nome) sono bravissimi.

31 agosto 2010

The Informant!

Col punto esclamativo, sì.

Diretto da Steven Soderbergh e tratto dal libro omonimo di tal Kurt Eichenwald, in The Informant! abbiamo come protagonista Mark Whitacre, un dirigente di una multinazionale americana che produce lisina che si ritrova a collaborare in incognito con la FBI per smascherare gli accordi di cartello che la sua e le altre compagnie del settore stanno intavolando per gonfiare artificialmente i prezzi.

Whitacre ha la faccia di un Matt Damon che, contrariamente alle mie aspettative, è bravissimo a esprimere la complicata personalità del personaggio. Whitacre è una di quelle persone che si fa fatica a inquadrare: a una prima impressione sembra un perfetto imbecille, ma ogni tanto mostra segni di inaspettata brillantezza, e ti fa venire il dubbio che faccia solo finta di esserlo, un imbecille.

La regia di Soderbergh è raffinata e precisa come al solito, ma stavolta non ruba la scena agli attori e alle loro vicende. Va da sé che Damon e il suo personaggio siano la cosa migliore di un ottimo film che gioca con scioltezza a fare la commedia, il dramma umano e il thriller. Inizia un po' lento, ma poi si rivela molto più complicato e interessante di quanto sembrasse inizialmente.

26 agosto 2010

Un prophète

La mia ricerca sulla relatività dello scorrere del tempo continua. Il nuovo caso a sostegno di questa teoria è Un prophète, filmone francese di 155 minuti che agli ultimi César, gli Oscar del cinema francese, ha raccolto la bellezza di nove premi. Quando, per pura curiosità, ho controllato quanto tempo era passato dall'inizio del film, il display indicava un'ora e 45 minuti... più dell'intera durata di un Sin Nombre a caso!

Mettendo da parte tutto l'odio atavico e calcistico che si può avere per i francesi, bisogna ammettere che Un prophète è un film clamorosamente bello, decisamente uno dei più belli che ho visto degli ultimi anni. Intanto non annoia mai, nonostante abbia pochi momenti di azione vera e propria e sia ambientato per larga parte in un carcere. È intenso come raramente accade, con alcune scene che creano una tensione davvero palpabile, grazie anche alle ottime interpretazioni di tutto il cast, Tahar Rahim nel ruolo del protagonista Malik e Niels Arestrup nel ruolo del boss corso in testa. E poi riempe i 155 minuti di durata con contenuti e spunti di riflessione etici e morali.
Il protagonista Malik è un diciannovenne francese di origini arabe condannato a sei anni di carcere per un non meglio specificato reato. Il film lo segue nella sua crescita come persona e come delinquente, due percorsi che vanno di pari passo. Da un lato noi spettatori stiamo male a vederlo trattato male dagli altri carcerati, ma dall'altro ci rendiamo conto che, per sopravvivere, Malik deve diventare come e peggio di loro. Il regista Audiard mischia continuamente le carte sotto questo punto di vista, lasciando a noi la decisione se "fare il tifo" per Malik oppure disapprovare il suo comportamento.

Il risultato è un film che narra della trasformazione da ragazzo a uomo di Malik, nel contesto sociale del carcere e di una Francia alle prese con gli scontri malavitosi e non tra gruppi etnici.

23 agosto 2010

Thank You For Smoking

Altro film di Jason Reitman, il suo d'esordio per la precisione uscito nel 2005, e altro centro, manco a dirlo.

Thank You For Smoking è una commedia tratta dall'omonimo romanzo di Christopher Buckley e narra di Nick Naylor, un uomo che fa un lavoro che molti definirebbero, scusate il francesismo, di merda: è il portavoce della società che si occupa di realizzare studi sugli effetti del tabacco e della nicotina sulla salute dell'uomo. Peccato che questa società sia interamente finanziata dalle multinazionali che producono sigarette e che l'unico suo obiettivo sia dimostrare che fumare non fa poi così male come tutti vogliono farci credere.

Tuttavia, il fumo è solo un pretesto in un film che parla soprattutto di un uomo. Un uomo che dovremmo detestare per quello che fa e dice, ma che finiamo per adorare. Questa è un po' una caratteristica dei film di Reitman, che hanno sempre dei protagonisti non esattamente simpatici (come appunto Juno del film omonimo e Ryan Bingham di Up In The Air), ma che per un motivo o per l'altro ci conquistano. Le vite di Naylor e Bingham hanno molti aspetti in comune, così come li hanno le loro crescite come persone nel corso del film.

Peccato aver visto questo Thank You For Smoking solo ora dopo Juno e Up In The Air, perché mi sono un po' perso il gusto della scoperta di un regista che ha già dimostrato di avere una sensibilità cinematografica straordinaria e una capacità non comune di raccontare con naturalezza storie di persone normali. Non solo, è anche bravissimo a dirigere chiunque, con il risultato di avere uno splendido Aron Eckhart nel ruolo di Naylor. Insomma, Reitman finora ha fatto tre su tre, hai detto niente.

17 agosto 2010

Das weisse Band

Ammetto subito la mia ignoranza e confesso che prima di vedere Il nastro bianco (rigorosamente in lingua originale con sottotitoli in inglese) non avevo mai sentito nominare il regista Michael Haneke.
Ecco, ora che ho rivelato che di cinema non capisco poi così tanto, posso andare avanti.

Eviterò di parlare della trama, perché molto del fascino del film risiede proprio nell'addentrarsi lentamente (ma MOLTO lentamente, considerato il passo della narrazione) nella vita del villaggio della Germania del nord che fa da teatro alla vicenda. Anche se si potrebbe pensare che questa storia sia tipicamente tedesca, il messaggio è universale e può essere applicato facilmente in altre realtà. Altrettanto simbolico è il periodo storico in cui si svolge il film, vale a dire i mesi che precedono lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Das weisse Band è un discreto mattoncino, va detto, ma è anche un film intenso e inquietante. La solo all'apparenza pacifica vita del villaggio rurale trae in inganno e amplifica l'impatto che i crudi eventi che ne turbano l'armonia in maniera irreparabile hanno sui suoi abitanti e sullo spettatore.
Haneke pone molte domande nel corso del film, ma non dà nessuna risposta. Girato interamente in freddo e simbolico bianco e nero, Das weisse Band lascia lo spettatore con molti dubbi: dubbi su quello che è accaduto effettivamente nel villaggio, su chi ha fatto cosa, su chi è colpevole di quale nefandezza. Come se non bastasse, ci lascia anche incerti su quello che questa storia rappresenta: una descrizione delle origini del fascismo e del nazismo, l'eterna ricerca dell'equilibrio tra libertà personali e sicurezza, la linea che divide colpa e punizione.

Haneke non fa nulla per farci arrivare facilmente alla fine delle due ore e 20 minuti di durata del film, ma la ricompensa è un film girato splendidamente carico di significanti e significati.

14 agosto 2010

Gomorra

Il film, non l'omonimo libro di Saviano da cui è, ovviamente, tratto questo lungometraggio diretto da Matteo Garrone e che non ho ancora letto.

Gomorra narra cinque storie di persone che hanno a che fare a vario titolo con la camorra. Persone che non sono necessariamente delinquenti, ma che loro malgrado si ritrovano coinvolti con la camorra anche quando la loro vita sembrerebbe non aver nessun punto di contatto con la malavita. Racconta anche del mondo in cui vivono con uno stile molto simile a quello di un asettico documentario. Anche se la posizione di Garrone può essere facilmente intuita, il film non emette giudizi sui personaggi e sulle loro vicende, ma si limita a mostrarceli nella maniera più neutra e cruda possibile e senza filtri di sorta.
È soprattutto per questo che l'impatto emotivo e visivo di Gomorra è così forte. Le immagini dello spaccio a cielo aperto di Scampia sono davvero impressionanti, così come lo sono le "avventure" di Ciro e Marco, due ragazzini cresciuti nel mito di Scarface e convinti che la vita del malavitoso sia fatta solo di droga e belle donne.

È difficile rimanere indifferenti di fronte a Gomorra. Non tanto perché riveli qualcosa di ignoto e mai sentito prima, quanto piuttosto per il fatto che il mondo che racconta riesce ad andare oltre quello che si può immaginare dall'esterno. Viene naturale pensare che è impossibile che le cose stiano davvero così, che uomini, donne, ragazzi non finiscano morti ammazzati come se niente fosse, ma il messaggio di Gomorra è proprio questo, senza retorica né paternalismo.

11 agosto 2010

Chloe

Tira più un pelo di figa che un carro di buoi.

Parole più vere non furono mai scritte, non ci sono dubbi. Altrimenti non si spiegherebbe come Roger Ebert, stimato critico cinematografico del Chicago Sun-Times, sia riuscito a dare tre stelle e mezzo (su un massimo di quattro) a Chloe.
Ed è anche il motivo per cui io alla fine ho messo da parte i dubbi e ho deciso di guardare questo film che aveva tutte le caratteristiche della vaccata. Anzi, due motivi.
Ma gnocca a parte, di che parla 'sto Chloe? Be', c'è Julianne Moore che è in crisi, convinta che il marito Liam Neeson le metta le corna con tutte le donne che incontra, e che per questo motivo ingaggia la prostituta Amanda Seyfried per mettere alla prova la fedeltà dell'uomo e, ovviamente, le cose non andranno esattamente come previsto (anche se, diciamocelo, cosa crisbio potevi prevedere a parte che ne sarebbe seguito un gran casino?).

Al di là del fattore gnocca, Chloe lascia intravedere di tanto in tanto un intreccio interessante, ma è tutto sprecato da una scrittura pessima e una regia altrettanto poco ispirata. I dialoghi strappano risate involontarie da tanto sono ridicoli e scontati, mentre gli attori, che sappiamo essere gente di talento, sembrano tutti appena usciti da una serie di provini per La Corrida del buon Corrado. Verso la fine del film c'è un dialogo tra Liam Neeson e Julianne Moore che fa capire quanto bello avrebbe potuto essere Chole se fosse stato scritto e diretto come si deve e se gli attori ne avessero avuto davvero voglia, così come è verso la fine che si capisce dove voleva andare a parare la storia con il più classico dei momenti "Ah, ecco!". Peccato che il resto del film manchi di costrutto e fallisca completamente nel creare nello spettatore tensione per la vicenda ed empatia per i personaggi.

Ed è qui che torniamo alla gnocca, perché effettivamente Amanda Seyfried e Julianne Moore sono un gran bel vedere, ma sarebbe stato decisamente meglio scaricarsi da internet i pochi minuti di filmati in cui mostrano le loro grazie e risparmiarsi la restante ora e mezza di supplizio.

8 agosto 2010

Sin Nombre

Lo scorrere del tempo è relativo, ne ho ormai la certezza e ne ho le prove per sostenerlo.

La prima prova è Avatar, il colossal di James Cameron che dura la bellezza di 160 minuti; due ore e 40 minuti che sembrano volare, non si ha il tempo di cominciare a chiedersi che ora è che il film è già finito.
La seconda prova è Sin Nombre, film diretto da Cary Fukunaga che, con la sua ora e mezza abbondante di durata, sembra non finire mai. A un certo punto della visione, preso dalla disperazione e dalla sensazione di essere rimasto seduto davanti allo schermo per ore, ho controllato il tempo trascorso e il timer segnava un'ora e otto minuti. Erano passati solo 68 fottutissimi minuti duranti i quali le mie gonadi sono invecchiate di almeno un decennio.

Ma perché con Avatar il tempo è volato e con Sin Nombre mi è sembrato di essere sottoposto alla tortura della goccia d'acqua in testa tanto cara a Torquemada? Sarebbe troppo facile rispondere perché Sin Nombre è un film di merda, ma sarebbe anche, ma non troppo, ingiusto. Ci sono tre trame che si sovrappongono e intersecano durante il film: quella di Willy "Casper", membro di una banda di delinquenti di una città messicana, e del dodicenne Smiley che è appena entrato a farne parte; poi c'è Sayra, ragazza honduregna che inizia con il padre e lo zio un viaggio della speranza attraverso il Messico per raggiungere i loro parenti in New Jersey negli Stati Uniti; infine c'è la relazione che si crea tra Sayra e Casper quando quest'ultimo uccide Lil' Mago, il capo della sua banda, mentre questi si apprestava a violentare la ragazza.

Di elementi di potenziale interesse il film ne avrebbe anche, ma la narrazione e i dialoghi affossano senza possibilità di appello qualsiasi voglia di appronfondirli. La rappresentazione dei meccanismi interni della banda sono al contempo affascinanti e scioccanti, così come lo è vedere cosa sopportano gli emigranti nel corso del loro viaggio verso la speranza, ma quello che dovrebbe fare da collante, vale a dire la relazione che si sviluppa tra Sayra e Casper, non è credibile e danza pericolosamente sui confini del ridicolo. Fukunaga farebbe meglio a imparare da City of God e Slumdog Millionaire.
Regia, fotografia, montaggio e recitazione sono di altissimo livello, va detto, ma Sin Nombre è troppo, troppo noioso, al punto di dilatare la percezione del tempo di chiunque abbia la sventura di guardarlo. È un buco nero cinematografico da cui fortunatamente si riesce a fuggire.

P.S. I critici sembrano essere d'accordo nel dire che Sin Nombre è un gran film. Sarà...

5 agosto 2010

Toy Story 3

Scrivere dei film della Pixar è quasi noioso. A parte Cars che è piacevole senza essere niente di straordinario, tutte le altre pellicole sono una più bella dell'altra ed è solo questione di gusti personali scegliere quale sia la migliore.

Toy Story 3 non fa eccezione e conferma per l'ennesima volta, nel caso qualcuno avesse ancora qualche dubbio, che alla Pixar hanno trovato il segreto della immortalità creativa. Altrimenti non si spiegherebbe come riescano sempre e comunque a tirare fuori film così belli.
In questo terzo episodio delle avventure di Woody e Buzz fa capolino più che nei due film precedenti la malinconia, la consapevolezza che crescendo si deve lasciare indietro qualcosa, anche i ricordi più cari. Quello dei giocattoli è un percorso che può essere metafora di tante cose, tutte più o meno scontate e ovvie, ma, come al solito, Pixar ce le racconta senza retorica e si limita a dipingercele per quello che sono: episodi che abbiamo vissuto più o meno tutti e che per questo ci toccano nel profondo. Tuttavia, anche se commuove, Toy Story 3 non è film triste, tutt'altro, è piuttosto una celebrazione di quello che ci portiamo dentro della nostra infanzia, dei compagni veri e non che ci sono stati a fianco in quei giorni.

Dei tre film forse questo è quello che ho trovato meno bello (pur rimanendo solo ottimo, eh), con una prima parte meno comica e più riflessiva, ma quando poi decolla, non si atterrerà fino alla fine. Eviterò di scrivere i soliti superlativi che si usano per parlare dei film della Pixar e mi limiterò semplicemente a ripensare agli splendidi momenti passati al cinema davanti allo schermo. Magari versando una lacrimuccia per il mio giocattolo preferito abbandonato chissà dove.

2 agosto 2010

Up In The Air

Sono un po' invidioso, lo ammetto.

Invidioso di uno come Jason Reitman che a 32 anni ha già girato tre film. Però sono bravi tutti a girare tre film del menga, basta andare a scorrere la filmografia di gente come Uwe Boll o M. Night Shyamalan, mentre il figlio d'arte Jason (suo padre è Ivan, mica l'ultimo degli imbecilli presi per strada) ha fatto film tre signori film (di cui mi manca il primo, Thank You For Smoking, ma che guarderò quanto prima).

Il suo film più recente è Up In The Air, che agli ultimi Oscar ha raccolto numerose, e meritatissime, nomination, ma nessun premio.
Ma il film di che parla? C'è un protagonista, Ryan Bingham, interpretato dal come solito bravissimo George Clooney, che sta a casa meno di due mesi all'anno e che per il resto del tempo è in viaggio per lavoro, da una città all'altra degli Stati Uniti per conto della sua ditta specializzata nell'outsourcing dei licenziamenti: in pratica Bingham viene pagato per licenziare, e sorbirsi le conseguenti reazioni, gli impiegati di una ditta al posto dei loro capi. E sì, è un lavoraccio, che però lui fa con un tatto e una delicatezza che non ti aspetti. Il personaggio di Bingham è freddo e distaccato nelle sue pressocché inesistenti relazioni personali; ha addirittura creato una filosofia di vita che sostiene che parenti, amici e relazioni di qualsiasi tipo siano solo un bagaglio che ci appesantisce e rallenta nei nostri spostamenti emotivi e non. È difficile trovare motivi per farsi piacere uno come Bingham, ma Clooney riesce a donargli una dimensione umana che va oltre il suo freddo cinismo. E poi ci sono i due personaggi femminili di supporto, le bravissime Vera Farmiga e Anna Kendrick, che, in modi totalmente diversi, fanno breccia nella fortezza di solitudine e bagagli a mano nella quale si nasconde Bingham.

Reitman figlio gioca a fare l'equilibrista in Up In The Air, giostrando agilmente tra commedia e dramma e senza mai eccedere in nessun caso. Evita abilmente le cadute di stile e i momenti strappalacrime scontati, cosa che è sempre più rara vedere. Il suo è un film intelligente e pungente, che però rimane accessibile a tutti e, soprattutto, godibilissimo.

22 luglio 2010

Brick

Un liceo americano all'apparenza come tanti altri; un protagonista scontroso e intelligente; la sua ex ragazza che gli chiede aiuto senza specificare il motivo, poco prima di essere trovata cadavere vicino a un tunnel di scolo. Questi sono gli elementi che danno il via a Brick, film diretto nel 2005 dall'allora esordiente Rian Johnson. Tralasciamo per decenza ogni commento sul titolo italiano che, come al solito, c'entra poco e niente con il film.

Ci sono due modi per guardare Brick: uno è quello che ho adottato io, vale a dire leggere sommariamente la trama del film giusto per avere un'idea minima di cosa aspettarsi, altrimenti ci si può documentare e scoprire che cos'è il realtà questo film.
Facendo come me, Brick provoca una sensazione strana: l'occhio trasmette le immagini al cervello, ma questo inconsciamente sembra accorgersi che quello che si è appena guardato in realtà è una facciata, una messa in scena nella messa in scena. Sullo schermo ci sono dei liceali americani coinvolti a vario titolo nell'omicidio della ex ragazza del protagonista e le scoperte che ne conseguono, ma in realtà l'intero film è un omaggio e un rifacimento dei film noir che andavano per la maggiore negli anni '40 e '50 e per questo fa parte del filone chiamato, guarda un po', neo-noir.

La cura e l'attenzione con cui gli stilemi del genere sono riprodotti sono davvero impressionanti, nella storia così come nei dialoghi. I personaggi in particolare sono resi con estrema efficacia, ma questo pregio è forse anche il loro difetto maggiore, perché sembrano essere più dei modelli che dei personaggi veri e propri, ed è per questo che non riescono a coinvolgere completamente a livello emotivo.
Ma non è niente che possa rovinare un film particolare e originale come Brick che riesce a funzionare come omaggio a un genere del passato senza però ridursi a essere un vuoto esercizio di stile; la storia che racconta è complessa e appassionante e, soprattutto, mai banale.

19 luglio 2010

Cyborg She

Detto anche My Girlfriend is a Cyborg, titolo decisamente meno ispirato, questo film del 2008 è una produzione giapponese, ma è diretto dal coreano Jae-young Kwak e interpretato da Koisuke Koide e dalla modella e attrice Haruka Ayase.

Anche se ha l'aspetto della solita commedia romantica sdolcinata, Cyborg She ha elementi di interesse che vanno oltre la storia d'amore tra i due protagonisti. Il più evidente è la reinterpretazione in chiave romantica di Terminator (soprattutto il secondo), al quale il film si ispira senza nasconderlo e che omaggia in più un'occasione (il cyborg è un Cyberdyne Model 103, per esempio), e non mancano nemmeno i viaggi nel tempo, l'evoluzione del rapporto tra il protagonista e la cyborg e il processo di umanizzazione di quest'ultima.
Tra le cose che mi sono piaciute di meno del film c'è la tendenza a concentrarsi su un determinato elemento della storia alla volta, con il risultato che il film risulta un po' rigido dal punto di vista narrativo e i compartimenti stagni della trama che fanno ridere, commuovono, o esplorano il rapporto tra i due personaggi hanno pochi momenti di contatto tra di loro.

Anche se nella parte finale il regista si complica la vita avventurandosi in un labirinto di viaggi nel tempo, fortunatamente il film riesce ad aggirare abbastanza adeguatamente l'annosa questione dei paradossi e non lascia fastidiosi buchi di sceneggiatura o cose irrisolte. Cyborg She è un film piacevole e diverso dal solito che riprende elementi già visti altrove e li ripropone in chiave decisamente originale e ha una vena geek sufficiente per permettere a noi uomini duri e puri di divertirci con una commedia romantica senza vergognarcene.

16 luglio 2010

Where The Wild Things Are

Ultimamente ho un po' trascurato il blog, lo ammetto, ma ho avuto per la testa altri cazzi per la testa, trasloco imminente su tutti.

Comunque, dicevamo. Where The Wild Things Are, film del 2009 diretto e sceneggiato, insieme a Dave Eggers, da Spike Jonze e tratto da un libro per bambini nel 1967 illustrato da Maurice Sendak. "Illustrato" perché il libro contiene solo nove periodi, mentre il resto sono solo, appunto, illustrazioni di Sendak.

Partendo da un materiale con una trama pressoché inesistente, e che consiste nella fuga del novenne Max in un mondo immaginario in seguito a un litigio con sua madre, il film di Jonze è più la riproduzione di quello che significa essere un bambino, dei sentimenti, dei desideri e delle frustrazioni che abbiamo provato tutti crescendo. Max è ovviamente il re del suo mondo immaginario, un mondo fatto di creature incredibili, di giochi e conflitti, ma è anche un mondo che non può e non riesce a sostituire quello reale. Infatti Jonze e Sendak non narrano solo della voglia di ribellione ed emancipazione di Max (interpretato dal bravo Max Records (si chiama così sul serio, giuro), ma anche del suo desiderio di tornare a casa, del non riuscire a stare lontano da sua madre, sebbene solo in maniera temporanea e immaginaria.

Nonostante la mancanza di una trama vera e propria si faccia sentire in alcuni frangenti, la semplice forza evocativa della messa in scena di Jonze riesce a catturare perché va a solleticare il bambino che si nasconde ognuno dentro di noi. Il mondo sognato da Max è un po' quello di tutti noi, così come lo sono stati le sue urla, le sue lacrime e il suo bisogno di affetto.

25 giugno 2010

Departures

Film giapponese del 2008, 130 minuti di durata, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero nel 2009, il protagonista è un violoncellista fallito che torna nella sua cittadina natale e comincia a lavorare per una ditta specializzata nella preparazione rituale dei cadaveri prima della loro cremazione.

A leggere queste informazioni, verrebbe da pensare che Departures sia un mattone indicibile, e invece è un film drammatico che non lesina sull'umorismo un po' macabro e sul melenso. Lo svolgimento del film è tutto sommato prevedibile, ma la cosa non infastidisce perché la fotografia e la regia sono perfette e i quattro personaggi principali sono interpretati ottimamente dai loro rispettivi attori, con la parziale eccezione della moglie del protagonista Daigo, così insopportabilmente giapponese in alcuni momenti che verrebbe voglia di prenderla a ceffoni.
Il rito della preparazione dei cadaveri è riprodotto con una attenzione e un rispetto per quello che rappresenta palpabili e le scene che ce lo mostrano sono probabilmente i momenti migliori del film, grazie anche ai silenzi che esprimono così bene le psicologie di Daigo e del suo capo, un uomo di poche, ma sagge parole. L'ottima colonna sonora si sposa egregiamente con le immagini, anche se talvolta cerca con un po' troppa insistenza di farti commuovere, come se vedere un marito affranto per la perdita della moglie non sia abbastanza triste di per sé.

È negli ultimi 10 minuti che Departures prende una piega davvero troppo prevedibile ed eccede nel buonismo, e confesso che alla fine del film ho avuto la sensazione che l'Oscar fosse un po' troppo, ma rimane comunque il fatto che Departures è un film che, nonostante l'argomento tutt'altro che allegro, scalda il cuore perché è una delicata celebrazione della vita e un'accettazione dell'ineluttabilità della morte.

22 giugno 2010

Synecdoche, New York

Con i mondiali di calcio in corso, di tempo e voglia per guardare film non ne ho avuti granché, ed è per questo ultimamente non ho scritto molto sul blog, ma ieri sera sono riuscito a vedere Synecdoche, New York, scritto e diretto dal Charlie Kaufman autore di, tra le altre cose, Being John Malkovich ed Eternal Sunshine of a Spotless Mind (mi rifiuto di usare il titolo italiano), all'esordio dietro la macchina da presa in questo caso.

Synecdoche, New York è la storia di Caden Cotard, interpretato dal come al solito bravissimo Philip Seymour Hoffman, un autore teatrale che si lancia nella scrittura di una mastodontica pièce di, nelle sue parole, brutale onestà e la cui realizzazione durerà per circa 40 anni. Lo sviluppo dello spettacolo è legato a doppia mandata alla vita di Cotard, che include se stesso, interpretato da un attore, e tutte le persone che gli gravitano attorno nel cast di personaggi, in quello che sembra un osservare dall'esterno la sua esistenza travagliata nel tentativo di ricomporne i pezzi e ritrovare un barlume di serenità.
In realtà, tutto il film è una enorme, complicata riflessione sui ruoli che come individui assumiamo nel corso della nostra vita, di quello che pensiamo di essere e di come vediamo gli altri, delle direzioni che le nostre esistenze prendono contrariamente ai nostri desideri. Lo spettacolo teatrale di Cotard è una splendida rappresentazione visiva di tutto questo, della compartimentazione a cui sottoponiamo le nostre vite e confonde continuamente la linea che divide la realtà di Cotard dalla sua immaginazione.

Mi piacerebbe un sacco potermi bullare con tutti di aver capito fino in fondo questo film, ma mentirei. Del resto, le sceneggiature di Kaufman non sono mai immediate e i film che ne escono si prestano a visioni multiple per poter apprezzare maggiormente i numerosi livelli di lettura che si scoprono avventurandosi sempre di più nei loro meandri narrativi e nelle menti dei personaggi. Ciò di cui però sono sicuro è che Synecdoche, New York è un film bellissimo, senza forse essere del tutto certo del perché, senza dubbio altero nello sviluppo e nella narrazione, ma che non manca di lasciare a bocca aperta per le situazioni del tutto inaspettate e per la bellezza dei suoi personaggi, i suoi dialoghi e della sua messa in scena.

10 giugno 2010

Breathless

Che genere di film sia Breathless lo si capisce sin dalla primissima scena: un uomo sta picchiando per non si sa quale motivo una donna in mezzo alla strada. Arriva un altro uomo, il protagonista Sang-Hoon, in aiuto della donna e pesta il primo tizio; poi prende a schiaffi la ragazza e le chiede perché si lascia trattare così per poi finire colpito in testa alle spalle. Cut, scena successiva.

Scritto, diretto, interpretato e prodotto da Yang Ik-Joon, all'esordio alla regia, questo film coreano del 2009 è uno di quelli quasi dolorosi da guardare da quanto tormentati sono i suoi personaggi e quanto violenta e cruda è la vicenda narrata. Sang-Hoon lavora per un società di recupero crediti ed è bravissimo perché non si fa remore di nessun tipo a gonfiare di botte e insultare chiunque; ma non lo fa per piacere, lo fa perché non sembra essere in grado di rapportarsi in nessun altro modo con gli altri, persino con i suoi famigliari e il nipotino di 3 anni. È un personaggio perfetto per essere odiato, violento e indisponente, ma con alle spalle un passato tormentato che giustifica, seppure solo in parte, la sua personalità. Sarà l'incontro/scontro con Yeon-Hue, una studentessa delle scuole superiori con la sua storia di violenza domestica, a dare inizio a un percorso di redenzione per entrambi, alla ricerca di quel calore umano che manca dalle loro vite, l'unica cosa in grado di salvarli dalla disperazione e l'autodistruzione.

Nonostante pecchi di inesperienza in alcuni frangenti, Yang Ik-Joon dirige un film incredibilmente solido, il cui unico vero difetto è forse la lunghezza di 130 minuti che poteva essere inferiore. Ciò non toglie che Breathless racconti in maniera meravigliosamente dolorosa e toccante di un ciclo di violenza domestica che si avvolge su stesso e che va a influenzare le vite di tutti i coinvolti. Ik-Joon e Kot-bi Kim nella parte della ragazzina sono bravissimi e comunicano con grande efficacia il tormento interiore dei loro protagonisti e caricano di significati le parolacce che riempono i loro dialoghi. E Sang-Hoon e Yeon-Hue sono due protagonisti che lasciano il segno, un po' come Mia di Fish Tank, e che elevano Breathless al rango di piccola grande, e imperdibile, gemma cinematografica.

5 giugno 2010

Away We Go

A me il libro d'esordio di Dave Eggers, A Heartbreaking Work of Staggering Genius, non è piaciuto. Il protagonista mi stava troppo sulle palle, non sono proprio riuscito a farmelo piacere, e così mi ha rovinato la lettura. Nonostante questo ho deciso lo stesso di guardare Away We Go, scritto a quattro mani da Eggers e Vendela Vida, che sono una coppia sposata e hanno due figli, e diretto da Sam Mendes.

I protagonisti sono Burt e Verona, una coppia in attesa del loro primo figlio. L'evento spinge i due trentenni alla ricerca di una nuova casa dove crescere il nascituro perché il loro stile di vita da studenti troppo cresciuti mal si adatterebbe a un bimbo piccolo. Ne nasce così una specie di road movie, con i due che visitano Phoenix, Tucson, Montreal e Miami per rimettersi in contatto con amici e parenti nel tentativo di trovare un luogo dove i due quasi-genitori possano sentirsi davvero a casa, un viaggio che invece mostra loro solo perfetti esempi di come non vogliono crescere la loro famiglia.

Burt e Verona, ottimamente interpretati da John Krasinski e Maya Rundolph, sono due belle persone: intelligenti, creativi, felicemente innamorati l'uno dell'altra. Forse sono troppo di tutto questo per essere veri, ma alla fine chi se ne frega. È anche bello vedere film di persone che sembrano migliori di noi, che magari hanno qualcosa da insegnarci e sono davvero interessanti. E il film che ce li fa conoscere è una commedia tenera e divertente che ci fa sentire meglio, grazie anche all'ottima fotografia e a una colonna sonora azzeccata.

2 giugno 2010

Anvil! The Story of Anvil

Nel 1984 quattro gruppi heavy metal fecero un tour promozionale in Giappone. Di quei quattro, Scorpions, Bon Jovi e Whitesnake diventarono famosi in tutto il mondo, mentre il quarto, gli Anvil del titolo, no.

Inizia così questo documentario sugli Anvil, riconosciuti dai loro colleghi come un gruppo musicale con una grande influenza sul genere, ma che non raggiunse mai la fama internazionale che sembrava meritare. Il regista Sacha Gervasi, anche autore del soggetto di The Terminal e fan della band, segue i due fondatori del gruppo, Steve "Lips" Kudlow e Robb Reiner, nella loro ricerca disperata di quel sogno di gloria inseguito da ormai circa trent'anni. Amici fin dall'adolescenza e ancora parte degli Anvil, Kudlow e Reiner non hanno mai smesso di tentare di sfondare sul serio, nonostante i ripetuti fallimenti. Il documentario ce li mostra nella loro vita di tutti giorni a casa in Canada, li segue in un disastroso tour europeo, fino alla registrazione di un nuovo album, la ricerca di un'etichetta disposta a pubblicarlo e un nuovo concerto a un festival heavy metal in Giappone.

Anche se qualche dubbio sul fatto che sia interamente reale c'è, Anvil è un documentario con un cuore, per molti versi simile a The Wrestler. Se all'inizio è naturale provare compassione per due uomini di mezza età ai quali il buon senso suggerisce ormai da tempo di appendere chitarra e bacchette al chiodo, andando avanti è impossibile non ammirare la determinazione e, perché no, l'ingenuità con la quale Kudlow e Reiner, amici da più di trent'anni, non mollano e continuano a inseguire il loro sogno, convinti che le speranze non abbiano una data di scadenza. Anvil ha dei momenti di umorismo genuino, ma riesce anche a commuovere con momenti di sentimentalismo certamente telefonato, ma che non mancano di colpire.

Nota di colore: Tiziana, la manager italiana del disastroso tour europeo, che parla un inglese pessimo, ma che bestemmia in italiano in più di un'occasione. Da applausi.

28 maggio 2010

Ink

Di solito evito di guardare film alla cieca e mi documento online, del resto con così tanti bei film in giro, perché devo perdere tempo con quelli che fanno schifo? Ed è per questo che volevo vedere con un certo interesse Ink, di cui si leggeva un gran bene, ma questo a volte non basta per essere sicuri di vedere un bel film. Non che Ink sia completamente da buttare via, intendiamoci, però poteva anche essere molto meglio, ecco. Ma andiamo con ordine.

Ci sono due fazioni contrapposte, gli Incubi [sic.] e gli Storyteller, che durante la notte danno alle persone che dormono rispettivamente incubi (ma pensa) e sogni. Nel mezzo ci sono un padre, sua figlia di circa 6 anni e l'Ink del titolo, un uomo deforme che non appartiene a nessuna delle due fazioni, ma che rapisce la piccola per guadagnare il favore degli Incubi. Il rapimento avviene però nel mondo dei sogni e questo fa sì che la bambina cada in coma nel mondo reale. La narrazione quindi segue Ink e la piccola nel mondo dei sogni e il padre in quello degli svegli, con gli Storyteller che cercano di salvare la piccola e responsabilizzare il padre, al quale è stata tolta la custodia della figlia per eventi che non sto a raccontare.
Di elementi per fare di Ink un buon film ce ne sono (ha una storia interessante con qualche sorpresa, una forte personalità estetica e uno stile che mi ha ricordato Heavy Rain e Silent Hill), il problema è che la prima parte del film è eccessivamente prolissa e, nonostante abbia il pregio di caratterizzare i personaggi e l'ambientazione con grande ricchezza di dettagli, ha il gravissimo difetto di avere un ritmo così lento da annoiare anche i più pazienti. La maggior parte degli attori poi ha una recitazione che non arriva alla sufficienza (la più brava è nettamente la bambina, il che è tutto dire) e che danneggia le situazioni emotivamente più coinvolgenti. Certo, non va dimenticato che il film è stato girato con un budget molto ristretto interamente finanziato dal regista e autore Jamin Winans, e si vede, ma resta il fatto che la qualità generale della pellicola ne soffre.

Insomma, a stare a sentire le sirene della rete mi aspettavo che mi sarei trovato di fronte a un piccolo capolavoro di cinema indipendente, e invece ho visto un film con qualche buona idea affogata nel mare di noia che è tutta la parte introduttiva della pellicola. Le cose migliorano andando avanti, ma dimenticare il supplizio appena passato è difficile.

26 maggio 2010

An Education

Basato su un racconto autobiografico, sceneggiato dal Nick Hornby bravo di High Fidelity e non quello penoso di How To Be Good e diretto dalla danese Lone Scherfig, An Education è un film bello dall'inizio alla fine. Ma tanto, eh.
È bello perché trova un equilibrio pressocché perfetto tra commedia e dramma, perché ha dei personaggi adorabili e vivi, perché ci fa sentire un po' come si viveva nella Londra del 1961.
La storia è quella di Jenny, una sedicenne intelligente, convinta che la vita non sia solo studiare e annoiarsi. E proprio a fagiolo capita David, un trentacinquenne che la seduce con una vita fatta di concerti di musica classica, serate danzanti e viaggi a Parigi e per il quale la ragazzina metterà in discussione il suo futuro. Non solo, anche la famiglia di Jenny rimarrà ammaliata da quello che sembra essere un uomo troppo bello per essere vero.

Jenny ha la faccia di Carey Mulligan che diciamolo, si vede che non ha 16 anni da un po' di tempo, ma che cazzo, è così brava che si fa fatica a raccontarlo. Sarebbe ingiusto dire che la giovane londinese si porta sulle spalle il film, del resto c'è anche un Alfred Molina che rulla sovrano anche nel ruolo di un rigido padre di famiglia degli anni '60 senza tentacoli meccanici, ma la sua interpretazione spicca senza dubbio.

Insomma, An Education va visto, perché di film così belli non ce ne saranno mai abbastanza.

24 maggio 2010

Near Dark

Prima di diventare la cinquantenne ultragnocca che vince l'Oscar alla faccia dell'ex-marito, Kathryn Bigelow nel 1987 esordiva alla regia da sola con Near Dark, quindi ben prima che i vampiri l'attuale prezzemolo dell'industria dell'intrattenimento.

Il protagonista è Caleb, un giovane fattore che si invaghisce della misteriosa e affascinante Mae. La ragazza sembra troppo gnocca per essere vera, e infatti si rivela essere un vampiro che inavvertitamente morde il giovinotto, il quale si accorge in fretta di stare diventando a sua volta una creatura della notte (l'ho scritto sul serio?). Mae lo convince a seguirla ed è così che conosciamo il resto dell'allegra combriccola di vampiri, formata dal patriarca Jesse, interpretato da Lance Henriksen, lo psicopatico Severen, con la faccia di Bill Paxton, la violenta Diamondback e il piccolo, anche se solo all'apparenza, Homer.

Near Dark è un film che mischia generi con grande sapienza: western, una storia d'amore e di famiglia, horror e azione. Tutti gli elementi sono dosati e miscelati alla grande e visivamente il film è di forte impatto grazie all'ottima fotografia. La rappresentazione della "famiglia" mi ha ricordato The Devil's Rejects, nel modo in cui i vampiri sono sì degli assassini sanguinari, ma anche per come rivelano una certa inaspettata umanità che ti fa provare una involontaria e sgradita compassione per loro. Le interpretazioni dei due protagonisti forse potrebbero essere un filino migliori, e la conclusione del film sembra un po' troppo "semplice", ma Near Dark mantiene intatto il suo valore anche dopo 23 anni ed è uno dei film migliori sui vampiri (non che ne abbia visti chissà quanti, ma vabbè).

18 maggio 2010

Cloudy With A Chance Of Meatballs

I film non devono essere per forza capolavori di originalità per essere piacevoli e/o divertenti, o avere messaggi profondi oppure avere personaggi saggi e realistici. E Cloudy With A Chance Of Meatballs non ha niente di quanto appena elencato, anzi usa e abusa di stereotipi assortiti, personaggi già visti mille volte e storie vecchie come il mondo.

Basato sull'omonimo libro per bambini, CWACOM (quanto fa fico usare gli acronimi, mi riporta ai tempi di ZZAP!) è un film di animazione di non ho idea quale studio; di sicuro non è roba Pixar, e non penso nemmeno che ci siano dietro i tizi di Dreamworks (ho controllato, è della Sony Pictures). Il protagonista è Flint, un ragazzo che fin da piccolo è un piccolo genio in grado di creare le invenzioni più strampalate e inutili, e che un giorno crea una macchina in grado di trasformare l'acqua in qualsiasi cibo, hotdog e hamburger inclusi. Ovviamente, da reietto che era, la macchina prima lo farà adorare da tutti, poi manderà tutto in vacca e sarà Flint a dover salvare la baracca e, già che c'è, conquistare la donzella di turno.

La storia è, appunto, già stata raccontata e ascoltata all'infinito, ma il film lo fa con un gusto e uno stile innegabili che rendono il tutto piacevole e divertente, grazie anche a un tocco di commedia slapstick che non guasta. Anche il design dei personaggi è indovinato e le loro animazioni sono azzeccate e danno loro una parvenza di personalità, ma è tutto il film ad avere una vera personalità estetica che rende questo film per bambini un modo più che accettabile di passare una serata anche per chi bambino non lo è più da un po'.

15 maggio 2010

Bunny and The Bull

Scritto e diretto dall'esordiente Paul King, già regista della serie televisiva inglese The Mighty Boosh, Bunny and the Bull è una commedia di due amici, Steve e il Bunny del titolo. È anche, nelle parole del suo regista, un road-movie ambientato in un appartamento.

Steve è un agorafobico, rinchiuso in acasa da circa un anno in seguito a non meglio specificati eventi avvenuti durante una vacanza in giro per l'Europa in compagnia di Bunny, il quale è caratterialmente l'opposto di Steve, ha successo con le donne e ha un problema con il gioco d'azzardo. La loro vacanza è raccontata attraverso i flashback che Steve ha nel suo appartamento rigurdando fotografie e altri oggetti collegati in qualche modo al viaggio.

Bunny and the Bull ha uno stile visivo molto particolare e gran parte delle scenografie sono realizzate con cartapesta, meccanismi di orologio e oggetti da cucina, con molti elementi ripresi dall'appartamento di Steve, e utilizza anche la tecnica dello stop-motion in molte sequenze. La trama e i personaggi sono classici e, se vogliamo, scontati, ma lo stile visionario rende il tutto più gradevole. L'umorismo particolare potrebbe non piacere a tutti, è molto inglese per molti aspetti (io mi sono letteralmente spaccato dal ridere quando i protagonisti incontrano il barbone in Svizzera) e la sceneggiatura fatica a fondere i momenti comici con quelli più seri se non alla fine, ma Bunny and the Bull è sicuramente un film sincero su due improbabili amici e il loro viaggio metaforico e non che merita di essere visto, fosse anche solo per il suo stile visivo molto particolare.

10 maggio 2010

Amores Perros

Questo film messicano del 2000 è un discreto mattoncino. Di quelli intensi, lenti, pesanti, lunghi (2 ore e mezza circa). Però è anche un bel film, girato con gusto cinematografico e ricco di personalità e atmosfera.

Il titolo può essere tradotto piuttosto liberamente con "L'amore è una cagna", e non è un titolo casuale, perché il ruolo dei cani e le loro vicende sono strettamente collegate a quelle dei loro padroni. Amores Perros narra tre storie d'amore nel senso più ampio del termine, tre storie che si intersecano in alcuni momenti, ma che rimangono comunque ben distinte. La prima è quella di due fratelli e una ragazza sposata con uno dei due, quello violento e poco di buono, mentre l'altro è innamorato di lei e vorrebbe portarla via verso la felicità; la seconda ha come protagonisti il responsabile di una rivista di moda/costume e la sua amante, modella per una nota marca di profumi, per la quale abbandona casa e famiglia; la terza è la storia di una barbone ex-galeotto che sbarca il lunario facendo il sicario su commissione mentre cerca di trovare il coraggio di riallacciare i rapporti con la figlia abbandonata vent'anni prima.
La parte centrale del film, quella della seconda storia, è quella che rende il film decisamente più pesante di quanto non sia già, ma il film rimane notevole nella sua rappresentazioni di sentimenti e relazioni. Certo, è tutt'altro che un film "facile", e il ritmo lento annoierà più di una persona, ma Amores Perros è decisamente un ottimo lavoro di realismo sui drammi della vita.

6 maggio 2010

D-War - Dragon Wars

Riesumo un altro post che pubblicai tempo fa su un altro blog. Il film merita, del resto.

Ieri sera sono passato a trovare un amico che non vedevo da un bel po' di tempo. Prima del mio arrivo, è andato ad affittare un film "speciale" per "festeggiare" il nostro incontro. Un bel gesto, dai, del resto erano mesi che non ci si vedeva. Il bello è che questo mio amico lo ha affittato col preciso intento di vedere un film di merda, roba che nemmeno Italia 1 avrebbe il coraggio di passare... forse.
Il film era il sopracitato D-War. E, manco a dirlo, il mio amico è perfettamente riuscito nel suo intento.

Il film è di una bruttezza rara. Una bruttezza che non riesce nemmeno a disgustare, mi sono ritrovato più volte a ridere di gusto di fronte agli evidenti buchi di sceneggiatura, alle inquadrature totalmente sballate, alla recitazione da codice penale. Ma il bello è che questo film è costato qualcosa come 75 milioni di dollari (americani, per i più puntigliosi)!

La trama (parola forte) è a grandi linee la seguente (è talmente sconclusionata che faccio fatica persino a scriverla in modo comprensibile): un'antica leggenda coreana narra di due draghi, uno buono come il pane, l'altro cattivo come la gramigna, e di come ogni 500 anni nasca una fanciulla che porta dentro di un sé un coso ('na specie di perla che dona poteri da Super Sayan al fortunato drago che se ne appropria) che in pratica diventa maturo al compimento del ventesimo compleanno della già nominata donzella. Ovviamente ogni 500 anni questi due draghi si infoiano come dei cani in calore per conquistare il coso. Nel frattempo, un vecchio babbione addestra un povero stronzo che dovrà proteggere la tipa dal drago cattivo e i suoi seguaci brutti e cattivi (che manco farlo apposta, ricordano vagamente i cattivi di Lord of the Rings). E qui già uno potrebbe chiedersi: ma perché diamine bisogna addestrare un povero mentecatto per proteggere la rintronata quando c'è già un drago buono pronto all'uso? Vabbè, non divaghiamo.
Succede un po' di casino, si passa ai giorni nostri (anzi, si torna, visto che quanto sopra è narrato, di merda, in flashback). Scopriamo che un povero coglione giornalista, interpretato da Jason Behr, è il protettore prescelto della nuova cretina reincarnata (una scialbissima Amanda Brooks). Il suo maestro è interpretato da Robert Forster, che ricopre anche il ruolo di tappa-buchi di sceneggiatura; quando il film è in un vicolo cieco, arriva lui dal nulla e risolve la situazione, lasciando personaggi e pubblico di stucco.
Succede ancora un po' di casino, le forze del male (realizzate in ottima CG) mettono a ferro e fuoco la città, i nostri eroi non fanno altro che scappare a piedi/in macchina/in elicottero, si arriva allo scontro conclusivo, i draghi si danno un po' di mazzate mentre i nostri eroi confermano la loro totale inettitudine al ruolo, fine (finale per altro che conferma l'incompetenza dell'autore, roba da mettergli le mani addosso).

Cioè, il mio resoconto è davvero molto più logico dello svolgimento del film, che sembra sceneggiato da un bambino dell'asilo dislessico. Succedono cose senza il mio minimo ordine logico, i personaggi si ritrovano in luoghi e situazioni senza che ci venga mostrato come e quando ci si sono ritrovati, i dialoghi sono scritti dal fratello più piccolo, e più scemo, del bambino di cui sopra, le scene si susseguono a caso, il montaggio è stato realizzato mettendo le varie scene in bussolotti della tombola poi estratti a caso e montati nell'ordine di estrazione.
Ahahah, vi giuro, non penso davvero di aver mai visto un film così sconclusionato. Merita di essere visto. vi giuro, raccontarlo non dà idea di che roba sia questo D-War. Altro che Ozpecoso.
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