26 febbraio 2010

La Vie en Rose

Immagino che molti conoscano Edith Piaf, ma suppongo che meno sappiano della sua vita che definire burrascosa è un eufemismo. Così burrascosa da essere perfetta per diventare il soggetto di un film.
Scritto e diretto da Olivier Dahan, La Vie en Rose è solo il più recente di film sulla vita della famosa cantante francese. E probabilmente è uno dei più famosi grazie alla interpretazione di Marion Cotillard che le è valsa un Oscar e un BAFTA Award come miglior attrice protagonista. E dopo aver visto il film, non si può che essere d'accordo con questi premi, perché l'attrice francese è davvero bravissima.

E il film? Beh, se non fosse stato per la bella Marion, non so quanto successo avrebbe avuto. La sceneggiatura dà troppo per scontato che lo spettatore conosca gli eventi e le persone raccontati su schermo e la narrazione frammentata, che forse tradisce qualche velleità artistica di troppo, non aiuta per niente a comprendere fino in fondo i vari chi, cosa e perché. Il continuo saltare avanti e indietro tra vari periodi della vita della cantante confonde e rende un po' goffo lo scorrere del film. Non che non ci siano scene valide, come per esempio la prima esibizione di Edith in una sala da concerto, e ha anche una gran bella colonna sonora, ma visto il tema del film era il minimo da aspettarsi. Anche i costumi e la scenografia sono ottimi e riproducono con coerenza i 40 anni abbondanti coperti dal film.

Ma alla fine, è sempre e comunque la Cotillard a spiccare per l'intensità della sua interpretazione e a rendere il film a suo modo memorabile.

20 febbraio 2010

Big Man Japan

Se non avessi saputo in anticipo che tipo di film è Big Man Japan, probabilmente sarei rimasto totalmente spiazzato e perplesso. E forse non sarei arrivato alla fine del film, considerato quanto noiosa sa essere la prima mezzoretta, ma andiamo con ordine.

Scritto, diretto e interpretato da Hotoshi Matsumoto, Big Man Japan è quello che in inglese chiamano un mockumentary, vale a dire un film impostato come un documentario, ma totalmente di finzione in realtà. Il tema del documentario in questione è la vita di Masaru Daisato, che è un uomo un po' sfigato se vogliamo, separato dalla moglie e che vede la figlia molto raramente, e che di lavoro fa il super eroe: seguendo la tradizione di famiglia che vide suo nonno e suo padre fare lo stesso prima di lui, Masaru si trasforma nel gigantesco Big Man Japan per difendere il Giappone dall'invasione dei mostri più assurdi e improbabili.

Come già scritto, la prima mezzoretta è abbastanza noiosa e segue Masaru nella sua vita di tutti i giorni, ma non appena appare su schermo Big Man Japan, il film si arrende finalmente alla follia insita nel soggetto e diventa definitivamente una parodia del genere di mostroni, robottoni e super-cosi assortiti e di cui fanno parte gemme come Megaloman.
In tutto e per tutto un B-Movie moderno, Big Man Japan è adorabilmente assurdo e originale e difficilmente paragonabile a qualsiasi altro film. Il finale poi è da lacrime agli occhi dal ridere e, ovviamente, del tutto fuori di testa. È un piccolo cult di nicchia che probabilmente non piacerà a tutti, ma splendido per chi riuscirà a entrare in sintonia con la sua assurdità.

18 febbraio 2010

Moon

Per il primo quarto d'ora circa, Moon dà quasi l'impressione di voler giocare a fare il Solaris (o quello del 1972 se preferite), ma piano piano il film rivela una trama molto meno cerebrale e complicata e invece preferisce affrontare il tema della separazione (in più di un senso) con uno stile pulito ed elegante e un Sam Rockwell bravissimo.

Il mistero di quello che sta succedendo sulla base lunare della Lunar Industries è rivelato piuttosto in fretta, ma il film cattura lo stesso nonostante buona parte del film sia girata in un'unica ambientazione e con un solo attore umano più un assistente robotico doppiato da Kevin Spacey. L'esordiente Duncan Jones, figlio di David Bowie, è abile nell'elargire gradualmente informazioni sulla vicenda che è una specie di thriller esistenziale e che pone anche qualche quesito etico interessante, però lo fa senza mai risultare noioso o pedante, concentrando l'attenzione della telecamera e dello spettatore sul protagonista Sam e il suo dramma personale.

Se il buon giorno di vede dal mattino, questo lavoro d'esordio fa presagire un futuro radioso per Jones. Girato con un budget limitato e presentato al Sundance Festival, Moon è una fantascienza sobria ed elegante e, manco a dirlo, un gran bel film.

Sul blu-ray è incluso anche Whistle, un corto del 2002 diretto sempre da Jones di ambientazione semi-fantascientifica che mostra come il talento del regista non sia saltato fuori dall'oggi al domani. Decisamente degno di uno sguardo se si ha la possibilità di vederlo.

14 febbraio 2010

Hunger

Il lavoro d'esordio dell'inglese Steve McQueen è un film difficile, sia per il tema che tratta che per come lo affronta.
Ambientato nel 1981 nella prigione di Long Kesh in Irlanda del Nord, narra dello sciopero "no wash" e del successivo sciopero della fame attuato dai membri dell'IRA detenuti nel carcere al fine di ottenere lo stato di prigionieri politici dal governo britannico, e che portò alla morte di Bobby Sands dopo 66 giorni di agonia.

Fin dai primi istanti, è chiaro che McQueen non abbia intenzione di indorare la pillola, e i pochi dialoghi sono accompagnati da scene crude che comunicano con impietoso realismo le condizioni in cui vivevano i carcerati. La parte centrale del film è uno splendido e intenso dialogo tra Bobby Sands e un reverendo che fa da preludio all'agonia dello sciopero della fame, un'agonia trasmessa e rappresentata con crudo realismo.

Come detto Hunger è un bellissimo film impegnativo, brutale, che non scende a compromessi e che mette su schermo senza filtri un pezzo di storia recente, ma lo fa con grande talento e coinvolgimento emotivo. E riesce nel non facile intento di spiegare il comportamento e il sacrificio di un uomo per la causa in cui ha sempre creduto, senza emettere giudizi né sentenze.

11 febbraio 2010

Genova

Non ero convintissimo di voler vedere questo film di Michael Winterbottom, di solito le pellicole di questo genere... intimista, diciamo, finiscono per annoiarmi, ma alla fine il desiderio di vedere su schermo la mia città natale ha avuto la meglio.

E alla fine è andata un po' come mi aspettavo, e Genova mi ha abbastanza annoiato, nonostante l'ottima regia e le notevoli interpretazioni dei protagonisti, tra cui spicca Colin Firth nella parte del padre. Ho trovato che il film mancasse di una direzione, un senso, ma probabilmente era un effetto voluto per lasciare spazio alle emozioni dei personaggi.
Genova narra di una famiglia che deve fare conti con la morte della madre, accaduta in un incidente stradale in cui rimangono coinvolte anche le due figlie. Nel tentativo di distrarre se stesso e le figlie dal dolore per la perdita, il padre decide di portare tutti a Genova, dove egli insegnerà per un anno all'università.
Il film si limita a mettere su schermo il dolore dei tre membri della famiglia, senza raccontare nulla di concreto. Ogni membro della famiglia reagisce alla morte della madre e somatizza il dolore in maniera diversa e Winterbottom ci fa vedere come lo fanno, senza forzare la mano e costringere lo spettatore a provare le emozioni che vuole lui. Forse è questo il pregio maggiore del film, riuscire a comunicare il dolore della famiglia con tatto e sobrietà. Tuttavia la narrazione frammentaria e lenta potrebbe spazientire più di una persona... come ha fatto con me.

Oltre il danno, la beffa

Ovvero "I perché di Mass Effect 2 - Parte seconda".

Perché diavolo ci sono millemila pianeti da sondare per raccogliere materiali da utilizzare per l'upgrade delle armi quando il limite reale sono i soldi che, anche finendo tutte le missioni secondarie del gioco, quelle faticosamente trovate sondando i millemila pianeti di cui sopra, non bastano per comprarli tutti? Erano davvero convinti che questa sezione del gioco fosse così divertente?

Perché caspita, durante le scene di intermezzo, mettono in mano ai personaggi armi che non usano? Il mio Infiltrator NON usa il fucile d'assalto, dategli la sua mitraglietta, mannaggia a voi?

Perché l'unico modo di fare salire di livello dei personaggi è averli nel gruppo durante una missione o su un pianeta? Non potevano lasciarmeli gestire dal menù del mio comodo terminale sulla Normandy invece di permettermi solo di giocare a "Gira la moda" con i loro vestitini?

Detto questo, sono quasi alla fine e Mass Effect 2 rimane una figata assurda. Voglio il 3. ORA.

8 febbraio 2010

I perché di Mass Effect 2

Che Mass Effect 2 sia un gioco e, più in generale, un prodotto di intrattenimento interattivo con i controattributi è fuori discussione, ma giocandoci dopo il primo episodio, cosa fondamentale per godersi la storia e vari collegamenti tra i due giochi, non si può fare a meno di chiedersi "perché?".

Anche Mass Effect era splendido, ma aveva un paio di difetti macroscopici, e ai vari eventi stampa di promozione del gioco, il dr. Muzyka, co-fondatore di BioWare, andava bullandosi che gli sviluppatori avevano dato ascolto ai fan e che avevano eliminato i problemi del primo episodio, introducendo anche gradite novità.
Quali erano i difetti macroscopici di Mass Effect? Prima di tutto l'inventario, la cui gestione era atroce: una lista infinita, e unica, di oggetti ordinati in base alla loro potenza, in cui dover vendere o eliminare un determinato oggetto era sempre un'operazione laboriosa e noiosa. Il tutto con un limite di 150 oggetti in inventario che costringeva a dover fare spazio prima o poi. Come se non bastasse, quando si andava a fare spese, il menu permetteva di confrontare gli oggetti in vendita con quelli indossati solo dai membri del party presenti e non con quelli lasciati indietro sull'astronave, con conseguenti bestemmie ogni volta che c'era un'armatura o un'arma in vendita per uno di quelli assenti.
L'altro difetto era rappresentato dalle missioni secondarie, presenti in grande abbondanza e tutto sommato anche interessanti per le loro trame, ma rovinate dall'uso e abuso di tre aree di numero modificate di volta in volta dal solo mobilio. E poi c'era il Mako, un veicolo usato per spostarsi sulle superfici dei pianeti con la manovrabilità di un camion di GTA e delle routine di gestione della fisica scritte da Topo Gigio e il Mago Zurlì.

Bene, questi i difetti di Mass Effect, che effettivamente non sono presenti nel 2. Ma i geniacci di BioWare hanno implementato un inventario degno di questo nome e disegnato qualche mappa in più per le missione secondarie? No, hanno semplicemente, e brutalmente, eliminato entrambi gli aspetti del gioco.
L'inventario, e la raccolta di pezzi di equipaggiamento, non esiste più, sostituito da un tutto sommato discreto sistema di miglioramento delle quattro armi in croce che si hanno in comune per tutti i membri del gruppo. Peccato che per realizzare questi potenziamenti serva una tonnellata di materie prime come platino, berillio, elemento zero, pucchiacchio e simili, e che per trovare tutta 'sta roba si giri in nave spaziale per i millemila pianeti dell'universo e si passi la superficie di OGNUNO allo scanner, centimetro per centimetro, un'operazione divertente come strapparsi i peli del naso con i guantoni da boxe. Immagino che quelli di BioWare si siano scambiati pacche sulle spalle di soddisfazione per aver risolto il problema delle missioni secondarie nascoste in maniera così brillante.

Quindi mi chiedo perché. Perché gente che di lavoro fa videogiochi, e magari lo fa anche da anni, non si rende conto che passare allo scanner i pianeti è un frantumamento di palle indicibile? Possibile che durante le millemila riunioni sull'argomento non si sia alzato nessuno per dire con tono sobrio, ma deciso "Guardate che è una cazzata"?

3 febbraio 2010

City of Thieves

Quando mi chiedono perché uso Twitter, di solito rispondo che lo faccio per seguire bella gente che conosco di persona, oppure gente più o meno famosa che mi ispira per un motivo per l'altro, oppure fighe assortite tanto per.

Ed è proprio grazie al Twitter di Scott Mosier che ho scoperto dell'esistenza di City of Thieves di David Benioff (che è anche un affermato sceneggiatore di film a Holywood), "La città dei ladri" in italiano.
Basato sui racconti del nonno dell'autore sulla seconda guerra mondiale, il libro è ambientato a Stalingrado e zone limitrofe durante l'assedio tedesco della città dell'inverno del 1942. È raccontato in prima persona da uno dei due protagonisti, il diciassettenne Lev che, in compagnia di Kolya, si imbarcherà in una improbabile quanto impossibile missione: trovare 12 uova per la torta di nozze della figlia di uno dei colonnelli del NKVD.
City of Thieves è uno di quei libri che non si riesce a riporre sul comodino fino alla fine. Miscela alla perfezione avventura, umorismo e pathos, il tutto amplificato da una accurata rappresentazione storica del periodo. Il classico "ancora un capitolo e poi basta" fa fare le ore piccole a letto (o in bagno...) e il libro trascina senza cali di qualità dall'inizio alla fine. Davvero bello, più di quanto mi aspettassi. Grazie, Scott.
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