30 aprile 2011

The Kids Are All Right

Altro film sulla famiglia, dopo City Island di qualche giorno fa. La famiglia di I ragazzi stanno bene è un po' più atipica perché formata da due mamme lesbiche e due figli adolescenti, una diciottenne che sta per andare al college e un quindicenne.
La loro vita scorre tranquilla e felice fino al momento in cui i due figli decidono di rintracciare all'insaputa delle genitrici il loro padre "naturale", il donatore dello sperma che le due madri selezionarono alla banca e con il quale una delle due rimase incinta. Come è logico aspettarsi, l'arrivo dell'uomo nella routine quotidiana della famiglia creerà problemi e porterà alla luce malumori latenti in tutti i quattro componenti.

Sebbene abbia ricevuto giudizi positivi un po' ovunque e, se non ricordo male, sia stato anche candidato all'Oscar 2011 come miglior film, The Kids Are All Right non mi ha convinto. Il problema è probabilmente nell'ambiguità del messaggio comunicato e nell'indecisione della regista al riguardo. Il primo grande errore la Cholodenko lo fa quando fa finire una delle mamme, Jules interpretata da Julianne Moore, a letto con il donatore Paul, interpretato da Mark Ruffalo. Jules è chiaramente infelice nella sua relazione con Nic (Annette Bening), ma ciò non spiega perché una lesbica conclamata e convinta debba finire a letto con un uomo, per quanto bello e sexy. Passi la debolezza del momento, ma farlo più volte è una cosa che ho fatto fatica ad accettare come credibile.
La Cholodenko poi tratta sia il concetto di famiglia e affronta la questione di quanto sia difficile mantenere viva una relazione dopo tanti anni. Che sono argomenti interessanti e degni di un film, ci mancherebbe, ma la regista li pone in una maniera che porta il film a una conclusione che ho trovato totalmente insoddisfacente e forzata. Senza dimenticare la trasformazione di Paul da playboy inveterato a padre di famiglia mancato nel giro di poche scene.

The Kids Are All Right non è un brutto film, ma manca di una direzione precisa e netta e passa da una scena all'altra senza mai decidere sul serio che tipo di pellicola vuole essere: una riflessione sulle relazioni tra partner al giorno d'oggi, o sul concetto di famiglia, o vuole forse suggerire che in fondo a tutte le lesbiche piacciono ancora gli uomini? Ho anche avuto l'impressione che, nonostante le interpretazioni prese singolarmente fossero ottime, in alcuni frangenti mancasse quell'intesa tra gli attori, quella complicità che rende il tutto più godibile. Ed è un peccato, perché si intravedono degli ottimi spunti nel film che vanno purtroppo sprecati.

29 aprile 2011

Machete

Machete è uno di quei film che guardi e vuoi tantissimo che ti piaccia perché c'è l'attore protagonista simpatico finalmente in un ruolo principale dopo una carriera da caratterista, perché è un film caciarone dove ci sono le fighe, le esplosioni, gli sbudellamenti e le battute assurde e perché aveva un trailer fighissimo ancor prima di diventare sul serio un film.

Eppure, nonostante le ottime premesse, a me Machete ha annoiato. Che è pure peggio. Non è nemmeno brutto, pessimo, schifoso, è solo pigro e svogliato. Ha pochissimi momenti ispirati, dei quali, tragicamente, il migliore è nei primi cinque minuti di film, mentre tutto il resto è una serie di sbudellamenti e sparatorie che sembrano prese dal manuale del film di genere e riprodotte senza particolare voglia o ispirazione. D'accordo, c'è un po' di gnocca che non fa mai male, il sangue pure scorre piuttosto copioso, e però non mi sono bastati e mi hanno lasciato tutto sommato indifferente. Nemmeno la presenza di Sua Maestà Steven Seagal ha potuto niente.

E poi, diciamocelo, Danny Trejo, con tutto il bene che gli si può volere, è VECCHIO e, mi spiace per lui, il suo treno era passato da moooolto tempo, ben prima dell'uscita di questo film.

26 aprile 2011

City Island

Mi piace guardare i film che hanno come protagonisti i nuclei familiari. Mi piace perché di famiglia io ne ho una e ho solo quella come punto di riferimento, e mi piace vedere come funzionano le cose nelle case degli altri. Quando le cose vanno bene e quando vanno male.

City Island, scritto e diretto da Raymond De Felitta, è la storia di una famiglia di, appunto, City Island, un'isoletta che si trova davanti a New York e fa parte del quartiere del Bronx. Gli italo-americani Rizzo sono la famiglia in questione, con Vince (Andy Garcia) come padre, Joyce (Julianna Margulies) come madre, un figlio adolescente e una figlia all'università. La caratteristica di questa famiglia è che nessuno parla; o meglio, tutti parlano, fin troppo, spesso urlandosi addosso, ma senza mai davvero comunicare, terrorizzati dal peso dei loro segreti e convinti che sia più sano e sicuro nasconderli piuttosto che confidarsi con i propri familiari e cercare il loro supporto. A questa situazione particolare si aggiunge Tony, il figlio che Vince scopre di avere quando il ragazzo arriva come "ospite" nell'istituto carcerario dove lavora come guardia.

City Island è una commedia che fa bene quello che deve fare, cioè fare ridere. Andy Garcia, che io non avevo mai visto in un ruolo comico, è azzeccatissimo nella parte del padre italo-americano, combattuto tra il suo dovere e ruolo di patriarca della famiglia e il suo desiderio di fare l'attore, che incidentalmente è il segreto che non vuole rivelare a sua moglie. Gli altri membri della famiglia hanno anche loro segreti "incomunicabili" che creano la più classica commedia degli equivoci, che segue un copione già visto, ma che lo fa con un senso dell'umorismo, una sceneggiatura e una regia sempre indovinati. City Island inizia, prosegue e finisce esattamente come ci si aspetta, ma è un film piacevole come capita raramente.

7 aprile 2011

Public Enemies

Michael Mann.

Potrei non scrivere nient'altro per fare capire la mia opinione su Public Enemies, il film più recente del regista americano (ed evitiamoci di chiederci perché nel titolo italiano il nemico sia diventato uno solo).

Però alla fine uno sforzo posso anche farlo e scrivere di Public Enemies è pure bello. Uno dei nemici del titolo è John Dillinger, interpretato da un bravissimo e bellissimo Johnny Depp, il rapinatore di banche che negli anni '30 divenne uno degli obiettivi principali della guerra contro il crimine lanciata da J. Edgar Hoover, direttore del Bureau of Investigation (che nel 1935 divenne l'FBI). La nemesi di Dillinger fu Melvin Purvis, un agente del Bureau interpretato da Christian Bale, che inseguì il rapinatore per anni e infine organizzò e partecipò all'azione che portò alla morte di Dillinger per le strade di Chicago nel luglio del 1934.

Mann non perde tempo a raccontarci il passato di Dillinger, si limita a mettere a schermo Depp bello come un dio greco, macho e sprezzante del pericolo e dell'autorità giudiziaria. Altrettanto fa con i personaggi di contorno, Purvis e Billie Frechette, la compagna di Dillinger, interpretata da una bravissima e splendida Marion Cotillard. Sono definiti dai loro comportamenti, dalle loro parole, dai loro sguardi e sta allo spettatore interpretarli e godere del come al solito ottimo lavoro di Mann. In particolare, la direzione artistica è particolarmente ispirata, con il film quasi interamente girato nei luoghi realmente frequentati da Dillinger.

Ma insomma, alla fine si tratta di un film di Mann, con le sue inquadrature, i suoi movimenti di camera, i suoi primi piani. Forse è più freddo e distaccato di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, ma a me va benissimo così.

4 aprile 2011

The Arbor

Nel 2007, una donna inglese fu condannata per essere responsabile dell'omicidio colposo di suo figlio di due anni, morte causata da un'overdose di metadone. La donna era un'eroinomane con un passato di prostituzione, abusi da parte di uno dei suoi partner e la morte della madre di 29 anni quando lei ne aveva solo 10. Questa storia ebbe grande risonanza sui giornali e le televisioni inglesi, ovviamente, ma ciò fu dovuto anche all'identità della donna: lei era Lorraine Dunbar, figlia di Andrea Dunbar, l'autrice di tre pièce teatrali molto famose nel Regno Unito, nata e cresciuta in un'area popolare di Bradford, alcolizzata e morta, come già scritto, a 29 anni a causa di un'emorragia cerebrale non prima di avere avuto due figlie e un figlio da tre uomini differenti, di cui Lorraine è la più grande.

The Arbor di Clio Barnard è un documentario che racconta, attraverso interviste a Lorraine e ad altri membri della famiglia, amici e conoscenti dei Dunbar, la tragica storia di Lorraine e lo sconcertante parallelo tra la sua vita e quella di sua madre. Tutte le interviste sono fatte in presa diretta alle persone vere, ma, a parte qualche filmato d'epoca, sono sovrapposte alle interpretazioni di attori veri. Questo stratagemma evita che The Arbor si trasformi in quella pornografia emotiva che fin troppo spesso si vede nella televisione moderna e fa sì che la tragicità della vicenda e dei racconti sia veicolata in tutta la sua terribile crudezza, senza filtri di nessun tipo. Le interviste sono inframmezzate da brevi tratti della prima opera della Dunbar, The Arbor appunto, recitati sulle strade dove Andrea è nata e cresciuta di fronte a un pubblico formato dagli abitanti della zona.

The Arbor è un'opera di una tristezza indicibile, deprime e lascia un reale senso di angoscia, ma è anche un film realizzato in maniera brillante e creativa.
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