5 dicembre 2011

Blood Story

Mesi di inattività sul blog, mesi di scazzo nella vita di tutti i giorni.

Comunque, dicevamo, Blood Story. Avrebbero potuto anche dire ai poveri traduttori italiani che avrebbero fatto ben due film diversi con titoli simili, eh. Così l'originale svedese Let The Right One In è diventato, abbastanza arbitrariamente, ma tutto sommato correttamente, "Lasciami entrare", mentre il rifacimento americano intitolato Let Me In è diventato [risata trattenuta a fatica] Blood Story. Ora, tralasciando le solite menate sui rifacimenti yankee di film in lingua non inglese, verrebbe da pensare che non ci sia molto da scrivere su Let Me In. E invece vale la pena di spendere due parole per questo film, perché il regista e sceneggiatore Matt Reeves, quello di Cloverfield, ha preso molti degli elementi positivi della pellicola originale e ne ha anche aggiunti alcuni di nuovi, facendo di Let Me In un film sufficientemente diverso da meritare di essere visto.


Sebbene trasferito geograficamente a Los Alamos, New Mexico, la storia si svolge ancora nei primi anni '80 e ha ancora come protagonista un dodicenne trascurato dai genitori divisi e tormetanto da tre bulli a scuola. Owen, questo il suo nome, stringe però amicizia con Abby, una strana ragazzina che si trasferisce nell'appartamento di fianco al suo. Ragazzina che è umana solo all'apparenza e che cambierà l'esistenza dell'adolescente.

Senza approfondire ulteriormente la trama, Blood Story conserva l'atmosfera originale, aggiunge qualche scena horror che non ricordavo nel film svedese e riesce anche a farci vedere con efficacia e tatto come cresce il rapporto di affetto tra i due protagonistim, in particolare in due scene molto belle (peccato che però anche in questo caso abbiano tralasciato la mia preferita del libro). Per certi versi, Blood Story è forse meglio perché lascia da parte alcune trame secondarie tratte dal libro e che in "Lasciami entrare" erano appena accennate e non appronfondite a sufficienza. Insomma, alla faccia di quelli che hanno sempre da ridire contro i remake americani, Blood Story si è rivelato un film all'altezza di "Lasciami entrare" e del libro da cui è tratto. Ebbravo Matt.

8 settembre 2011

Rango

Dopo la fortunata serie dei Pirati dei Caraibi, la premiata ditta Gore Verbinski / Johnny Depp torna sui nostri schermi con un film di animazione computerizzata, Gore dietro la macchina da presa e Johnny impegnato a doppiare Rango, il camaleonte protagonista. Mentre la Pixar prende pizze in faccia da un po' tutti i critici del mondo con il suo nuovo Cars 2 (che non ho ancora visto, ma nemmeno il primo mi era piaciuto particolarmente), gli altri hanno finalmente re-imparato a fare dei film come si deve.

Rango mette in scena  la classica storia western (di cui riprende e reinterpreta anche l'ambientazione e i personaggi) dell'uomo solitario che trova una nuova comunità che lo adotta come eroe nonostante sia tutt'altro, finisce per rivelarsi il povero sfigato quale è, viene cacciato e finisce poi per redimersi (vabbe', spoiler, ma cribbio, si vede lontano un miglio dove andrà a parare il film). Quindi, tutto già visto e letto milioni di volte, ma è le variazioni sul tema sono originali e perfettamente in tono con l'ambientazione e i personaggi. Mi è piaciuto particolarmente come gli autori hanno reintepretato i personaggi classici del genere, come il fuorilegge al servizio dei cattivi o il saggio che dona perle di saggezza di difficile interpretazione (e doppiato da Timothy Olyphant).

Johnny Depp è un doppiatore eccellente e il suo Rango è un personaggio a tutto tondo, e anche il resto del cast (attori e animali comprimari) è all'altezza. Rango è un film di animazione estremamente piacevole, con una realizzazione tecnica che lascia davvero a bocca aperta, con alcuni dettagli che sembrano quasi reali, un'ottima regia e un uso dei colori davvero azzeccato. L'attenzione ai dettagli è minuziosa e ogni personaggio caratterizzato con grande cura.

P.S. Non ho idea di chi siano i doppiatori italiani, IMDb riporta quelli originali e non ho voglia di andare a cercare i nomi,

5 settembre 2011

The Social Network

Il titolo italiano avrebbe potuto essere nettamente "Il socialino" o "Il socialnè", invece hanno deciso di tenere quello originale yankee, peccato.

The Social Network è tratto dal saggio "Miliardari per caso" di Ben Mezrich ed è, in parole povere, la storia della nascita e dell'inarrestabile corsa verso il primo milione di utenti di Facebook, IL social network per eccellenza ormai. È anche la storia di Mark Zuckerberg e delle cause legali che il ventisettenne ha dovuto affrontare riguardo la paternità dell'idea alla base del progetto, in particolare con Eduardo Saverin, co-fondatore e finanziatore unico del social network durante i primi anni di attività, e i gemelli Vinklevoss e Divya Narendra, con i quali Zuckerberg collaborò per poco più di un mese a un progetto molto simile a Facebook, HarvardConnection, prima di abbandonarli e lanciare il suo social network con un tempismo molto sospetto.

Sceneggiato da Aaron Sorkin e diretto da David Fincher, che si conferma sempre di più tra i mie registi preferiti, The Social Network è una macchina cinematografica in cui ogni singola parte funziona in sincronia perfetta con tutte le altre. La sceneggiatura non sbaglia un colpo, non ha mai un un singolo passaggio a vuoto, fosse anche di pochi secondi, e ti incolla allo schermo dall'inizio alla fine come il migliore dei thriller, mentre la regia di Fincher è, manco a dirlo, splendida come al solito, precisa e funzionale alla storia e mai invadente.
Le sue due ore di durata sono ricche di dialoghi veloci e complessi che riescono comunque ad appassionare e spiegano con disarmante e inaspettata semplicità i meccanismi alla base di un social network come Facebook e i complicati meccanismi sociali e finanziari che si sono mossi dietro le quinte. Abituati a dialoghi sempre più didascalici e semplificati, The Social Network è una piacevole ventata d'aria fresca e dimostra come non sia necessario semplificare i film, ma come invece lo sia scriverli come si deve, e la sceneggiatura di Sorkin ne è la prova materiale.
Meritano un applausone anche tutti i membri del cast, a partire da Jesse Eisenberg, che dà una nuova dimensione al suo solito ruolo di sfigatino col cuore d'oro e dimostra di avere del talento vero, passando da Andrew Garfield nei panni di Saverin per arrivare allo splendido Justin Timberlake nel ruolo del vulcanico e irresistibile Sean Parker (il fondatore di Napster e Plaxo). Sono loro che danno vita e concretezza alla parole di Sorkin e sono tutti indistintamente bravissimi.

L'argomento di The Social Network potrà non interessare a tutti, in alcuni passaggi è quasi il sogno bagnato di qualsiasi nerd informatico, ma la qualità della sua regia e della sua scrittura non possono lasciare indifferente qualsiasi spettatore, appassionato di cinema o spettatore occasionale che sia. Va visto e basta. Più e più volte.

P.S. C'è pure la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross che ha vinto un meritato Oscar.

31 agosto 2011

Ponyo

Io non sono un fan sfegatato di Miyazaki. Cioè, mi piacciono i suoi film, li guardo sempre volentieri, ma non riesco a considerarlo uno dei miei registi preferiti. Nonostante mi siano piaciuti più o meno tutti i suoi film. O forse dico che non sono un fan per tirarmela e distinguermi da tutti i fissati con anime e simili che ci sono là fuori.

Sia come sia, ho visto di recente Ponyo, l'ultimo film di Miyazaki in attesa che nel 2012 esca il seguito di Porco Rosso. Come molti dei film del regista giapponese, Totoro su tutti per esempio, Ponyo ha una trama quasi inesistente. Sì, ok, c'è almeno nominalmente e racconta di una, boh, principessina del mare che vuole tanto diventare una bambina e che trova nell'amicizia e nell'affetto di un bambino di cinque anni la forza e la spinta per farlo, ma in fin dei conti la storia è l'elemento meno importante di Ponyo. Si ha quasi l'impressione che il film decida sul momento cosa fare piuttosto che essere il risultato di una sceneggiatura scritta e definita. Sì, perché quello che è realmente importante del film è la sua realizzazione estetica, la fantasia e la creatività che sprizzano da ogni disegno, la forza delle immagini che appaiono a schermo e la sinestesia che creano con la bellissima colonna sonora. È vero che le emozioni che ci comunicano sono semplici, infantili per certi versi, ma non mancano di coinvolgere.

Ponyo è un film che non puoi fare a meno di definire carino, in tutti i sensi, perché è tanto dolce da rischiare di cariarti tutti i denti e di farti venire gli occhi a cuoricino, e ti fa sentire l'irresistibile desiderio di abbracciare il televisore e per non mollarlo mai più. È decisamente un film per bambini più che per adulti, anche se un accenno di messaggio ecologista è sempre presente, ma può e riesce a essere piacevole anche per chi bambino non lo è più da un bel po' di primavere.

22 agosto 2011

The Fighter

Si fa fatica a credere che The Fighter sia ispirato a una storia vera, perché quella dei fratellastri Micky Ward e Dicky Eklund sembra la perfetta storia hollywoodiana, e non a caso il regista David O. Russell ha deciso di trarne una pellicola che nel 2011 è stato candidata all'Oscar come miglior film.

Dicky alla fine degli anni '70 combatté contro Sugar Ray Leonard; lui sostiene di essere riuscito a metterlo al tappeto una volta, mentre l'arbitro decretò che il pugile di colore era semplicemente scivolato. Alla fine, fu Leonard a uscire vincitore da quell'incontro che fu l'apice della carriera di Dicky, il quale finì poi per diventare un tossicodipendente (di crack, per la precisione). Micky invece è giovane e sano e, anche se sta attraversando un brutto periodo, ha ancora la possibilità di diventare qualcuno nella boxe, nonostante sia allenato da Dicky e debba sopportare la pressione della sua intera e squinternata famiglia, tra cui spicca sua madre e manager (una bravissima Melissa Leo), ma propria a causa delle persone che gli vogliono più bene, corre il rischio di non riuscire a realizzare il suo potenziale.

Nonostante una trama scontata e prevedibile, The Fighter riesce comunque ad appassionare. Molto del merito va sicuramente all'ottimo cast, tra cui spicca Christian Bale nei panni del tossicodipendente Dicky, ma anche Mark Whalberg e Amy Adams non sfigurano per niente. A voler essere maligni, si potrebbe dire che, sì dai, non è che The Fighter sia poi così diverso da Rocky, ma ciò non toglie che sia un film estremamente piacevole da guardare. Si potrebbe discutere a lungo se sia o meno materiale da Oscar, ma alla fine, chi se ne frega, dai.

18 agosto 2011

Night Watch e Day Watch

Prima di fare il regista tamarro in America con Wanted, Timur Bekmambetov faceva il regista tamarro in Russia. Nel 2004 e nel 2006 co-scrisse e diresse I guardiani delle notte e I guardiani del giorno, due film che mettono a schermo l'eterna lotta tra le forze del giorno e quelle della notte. La saga è basata sulla tetralogia di Sergei Lukyanenko, che include anche Twilight Watch e Final Watch.

Ambientati nella Mosca dei giorni nostri, le pellicole sono il classico mix di azione, personaggi pesci e dialoghi bizzarri. Bekmambetov non lesina su effetti speciali e grafica computerizzata, ma non sempre il risultato è soddisfacente. Il primo film, sebbene racconti una storia semplice e abbastanza scontata, mantiene un buon ritmo per tutta la sua durata e non esagera mai in nessuno dei suoi elementi costitutivi. Le scene di azione sono ben coreografate e la trama riesce a essere sufficientemente interessante fino alla fine del film.
Il secondo invece soffre della volontà del regista di prendere il prequel e aumentarlo in tutte le sue parti, durata inclusa che arriva a 2 ore e 11 minuti. La trama è eccessivamente complicata e la sceneggiatura confusa impedisce di poterla apprezzare fino in fondo. Si intuiscono elementi di interesse che meriterebbero di essere approfonditi, ma il regista salta da un personaggio all'altro e da una sottotrama all'altra troppo frequentemente. Anche gli effetti speciali soffrono dello stesso problema e risultano esagerati e confusi.

Wanted è un film di ben altra caratura, ma in Night Watch e Day Watch si vedono già le doti di Bekmambetov. Sono entrambi film imperfetti che peccano di troppa foga, soprattutto il secondo, ma rimangono due buone pellicole per gli appassionati del genere d'azione e riescono a non ammorbare lo spettatore nonostante la presenza dei vampiri.

4 agosto 2011

Inside Job

Nonostante in Italia si continui a negare l'evidenza, dal 2008 circa il mondo intero si trova in recessione. La causa scatenante della crisi fu il crollo del mercato finanziario americano che ebbe un effetto domino sui mercati finanziari di tutto il mondo, e come conseguenza diretta e indiretta, quasi tutti i settori dell'economia ne sentirono il contraccolpo.

Scritto, diretto e prodotto da Charles Ferguson, il documentario Inside Job ripercorre i passaggi che portarono alla crisi, spiegandoli in maniera più semplice e comprensibile possibile, e non manca di fare i nomi di quelli che, a modo di vedere dell'autore, furono i diretti responsabili del disastro economico. Con uno stile chiaro e informativo, come si conviene a un documentario di questo genere, Ferguson spiega come il mutuo non pagato da un americano del Kentucky abbia potuto mettere in ginocchio banche e agenzie di investimento con giri d'affari da centinaia di milioni di dollari.

Inside Job è basato su una tesi e il discorso narrativo dell'autore ruota interamente intorno a essa: la tesi è che l'assenza di controlli sulle operazioni delle banche ha permesso a quest'ultime di operare liberamente alla ricerca di guadagni sempre maggiori, senza il minimo riguardo per i propri clienti o delle conseguenze, con una riflessione a margine su un meccanismo interno che incentiva gli operatori del settore a prendere rischi in mancanza di un sistema che punisca gli errori. Al di là delle considerazioni politiche ed economiche su questa tesi e sulle argomentazioni di Ferguson, Inside Job è un documentario eccellente che pone domande dirette ai protagonisti, o per lo meno quelli che hanno accettato di farsi intervistare, e che mette in luce i numerosi conflitti di interesse e politici che si nascondono dietro le quinte.

Probabilmente coloro che hanno seguito la vicenda con attenzione non scopriranno molto che non sapessero già, ma l'analisi dei rapporti tra banche, politica e accademia americane è inquietante e getta numerose ombre sul futuro e Inside Job analizza in maniera chiara un capitolo importante della nostra storia recente.

1 agosto 2011

127 Hours

Leggi la trama di 127 ore di Danny Boyle e non sai bene cosa aspettarti. Un po' perché è dura immaginarsi come possa svolgersi e andare a finire la storia di Aron Ralston, con un braccio intrappolato per appunto 127 ore in un canyon americano con un braccio bloccato tra una pietra e una parete rocciosa, e un po' perché, come in Buried, non si sa come il regista riuscirà a riempire momenti di "nulla" che inevitabilmente si presentano in un film in cui la maggior parte del tempo è occupata da un attore solo in un'unica ambientazione.

Danny Boyle però non è l'ultimo degli imbecilli del settore e fa di 127 ore un'esperienza appassionante sotto tutti i punti di vista. Esteticamente, in particolare nella prima parte, toglie il fiato grazie a una fotografia e un montaggio magistrali. Non si può rimanere indifferenti di fronte a quei colori e a quelle inquadrature a volo d'uccello. Quando poi è Ralston, con la faccia di un bravissimo James Franco, a prendere la scena, il film diventa più intimista e onirico e, nonostante passetto falso di poco conto qua e là, trascina fino all'incredibile finale.

Come scrivevo altrove, 127 ore è un film che, nell'ordine, mi ha meravigliato, mi ha stupito, mi ha disgustato, mi ha fatto commuovere e mi ha fatto sentire sollevato. Boyle evita accuratamente di dipingere Ralston come un eroe, come un uomo fuori dal comune. La sua storia, che ricordo è reale, ha dell'incredibile ed è assurdamente appassionante; si può anche cercare di darle un valore simbolico, di caricarla di significati reconditi, ma è anche perfettamente godibile e apprezzabile come "semplice" storia di umana resistenza e voglia di vivere, la storia di una persona come tante che arriva a fare cose fuori dal comune pur di sopravvivere.

25 luglio 2011

Green Zone

Nel 2003 ci hanno riempito la testa con la storia delle "armi di distruzione di massa", la scusa usata da Stati Uniti e Regno Unito per invadere l'Iraq e liberare il popolo iracheno dalla tirannia di Saddam Hussein. O almeno è quello che hanno voluto farci credere.

Green Zone di Peter Greengrass, quello degli ultimi due Bourne, ci porta a Baghdad poco dopo la caduta di Saddam e con le forze americane impegnate nella disperata ricerca di quelle fantomatiche armi che avrebbero permesso all'amministrazione Bush di salvare la faccia e la decenza davanti alle Nazioni Unite e al resto del mondo. Matt Damon è Miller, un marine a capo di una delle squadre impegnate in questa caccia alle streghe che, dopo l'ennesimo viaggio a vuoto in una zona pericolosa di Baghdad in cui di armi di distruzione di massa non ce n'è nemmeno l'ombra, scopre piano piano che i giochi di potere dietro le quinte sono molto più complessi di quanto avesse mai potuto sospettare.

Green Zone non è brutto film, ma sa tanto di "compitino": è ben girato, soprattutto nelle scene d'azione, e ha un cast di buon livello che fa il suo dovere, però non riesce a coinvolgere più di tanto. Sarà forse per colpa dei personaggi scontati e tratteggiati con l'accetta o la storia che sì, è anche interessante, ma alla fine non riserva particolari sorprese, probabilmente anche a causa di una certa semplicità di fondo di tutto l'intreccio narrativo. Nonostante l'argomento trattato sia politicamente molto rilevante, forse Green Zone arriva troppo tardi per sfruttare adeguatamente l'onda emotiva che accompagnò quegli eventi e si riduce a essere un discreto film d'azione e un mediocre thriller politico che non ha il mordente necessario per lasciare il segno.

18 luglio 2011

El secreto de sus ojos

Il problema di vedere film che hanno raccattato premi a destra a manca è che, se non ti piacciono, ti viene il dubbio di non capirne una sega, di cinema. Il segreto dei suoi occhi è appunto uno di questi film, dato ha vinto l'Oscar 2010 come miglior film straniero e che ha esaltato un po' tutti o quasi. E che a me ha abbastanza annoiato.

Questo film argentino se la tira da poliziesco thriller drammone romantico politico per più di due ore e nella prima oretta circa riesce anche a essere abbastanza piacevole e interessante. Anche perché è il tipico film un po' paraculo con tutte quelle cose messe apposta lì per imbonire il pubblico, i dialoghi con le frasi a effetto che un utente medio di Tumblr ci campa per un mese, le inquadrature da protofighetti di scuola del cinema e un cast di attori tutto sommato bravi. Il problema è davvero la lunghezza, perché quello che succede in due ore poteva essere tranquillamente sfrondato e ridotto a livelli più accettabili. Il backgroung storico dell'Argentina della metà degli anni '70 è messo lì tanto per far scena e permettere agli autori di bullarsi con gli amici di aver affrontato la questione nel loro film, e anche la sottotrama romantica non aggiunge granché.

Nonostante i troppi passaggi a vuoto, soprattutto nella seconda parte, "Il segreto dei suoi occhi" ha un buon intrigo e una discreta, sebbene scontata, riflessione sul concetto di giustizia e sulle conseguenze delle proprie scelte, che però non bastano a salvarlo da un giudizio negativo. Se poi penso che ha vinto l'Oscar al posto di gemme come Das weisse Band e Un prophète...

14 luglio 2011

Blue Valentine

Blue Valentine è uno di quei film che vanno visti con una determinata predisposizione mentale al pianto e al tormento, ma con molta attenzione a non cadere nelle tendenze suicide.

È la storia d'amore di Dean e Cindy, una coppia sposata con una figlia che adorano. Il film alterna spezzoni dal loro passato che raccontano l'inizio felice della loro relazione ad altri ambientati nel non altrettanto allegro presente, come se il regista fosse alla ricerca, e noi con lui, del momento in cui le cose hanno cominciato ad andare male. Tuttavia, come spesso accade, non è così semplice identificare un attimo preciso, una parola, un evento che ha cambiato una relazione, e quindi assistiamo, impotenti come i due protagonisti, alla lenta e inesorabile disgregazione della coppia e del loro rapporto. Dean e Cindy cercano di salvare il loro matrimonio e il loro amore, ma ormai si sono allontanati troppo l'uno dall'altra e dalle persone che erano quando si sono innamorati.

Girato in maniera ostentatamente e talvolta fastidiosamente "indie", con telecamere a spalla e inquadrature scomposte, Blue Valentine ha quello stesso piglio voyeristico di Fish Tank che ci fa sentire come intrusi nella vita dei due protagonisti. Ryan Gosling e Michelle Williams sono fenomenali nei panni di Dean e Cindy e trascinano il film nei suoi momenti più lenti e faticosi. Blue Valentine punta tutto sul coinvolgimento emotivo e, in mancanza di quello, potrebbe deludere le aspettative.

15 giugno 2011

Memories of Matsuko

Film giapponese del 2006 che ho recuperato in seguito al consiglio di un amico e che, se non sbaglio, non è mai stato distribuito ufficialmente in Italia né al cinema né in DVD.

Memories of Matsuko racconta in flashback la vita di, appunto, Matsuko attraverso i ricordi che suo nipote raccoglie in seguito alla prematura e violenta morte della zia all'età di 51 anni (mi sembra). La donna, sorella del padre del ragazzo, sparì dalla vita della sua famiglia circa 30 anni prima in seguito a una serie di screzi e incomprensioni col padre e da quel momento in poi ebbe una vita movimentata e tragica.

Tratto dall'omonimo romanzo di Muneki Yamada, Memories of Matsuko colpisce soprattutto per la semplicità con cui il regista e sceneggiatore Tetsuya Nakashima riesce a mischiare toni comici e drammatici, passando dall'uno all'altro registro in pochi istanti e senza mai sembrare forzato o pretestuoso. La storia di Matsuko è particolare e decisamente fuori dal comune, ma lo stile narrativo di Nakashima, che mischia tra le altre cose musical con inquadrature e montaggi poco ortodossi, contribuiscono a fare di Memories of Matsuko un film esteticamente e narrativamente fuori dal comune.

Per un'ora e 40 minuti è un film bellissimo, che racconta di una persona che si oppone con tutte le sue forze alla tristezza e alla solitidine che sembrano tornare sempre nella sua vita anche quando le cose vanno bene, anche se magari solo all'apparenza. Peccato che il film duri in realtà due ore e 10 minuti, e anche se quella mezzora in più non arriva a rovinare il film, risulta comunque superflua e inutilmente didascalica. Nonostante questo, Memories of Matsuko è un film che davvero bello che merita di essere visto.

11 giugno 2011

Lista d'attesa

A me piace leggere e continuo a farlo con piacere, anche se da ragazzino lo facevo molto più regolarmente e oggi, tra Internet, socialcosi, serie televisive, videogiochi e mille altre forme di intrattenimento, i libri hanno molta più concorrenza. I tempi di conclusione dei libri si allungano a dismisura, ma arrivo sempre alla loro fine, in un modo o nell'altro.

Il problema, semmai, è la lunga lista di libri acquistati e in attesa di essere letti, perché nonostante abbia rallentato di molto i ritmi di consumo letterario, l'acquisto compulsivo di volumi reali e virtuali (sul mio fidato Kindle) è una pratica a cui non sono ancora riuscito a sottrarmi. I socialcosi poi sono croce e delizia a questo proposito, perché capita spessissimo di leggere i commenti positivi su un libro da parte di qualche utente e, al giorno d'oggi, comprare un volume e vederselo recapitare a casa è una questione di pochi click e pochi istanti. E la mia forza di volontà non può niente al riguardo.

Comincio ad avere talmente tanti libri non letti che forse dovrei iniziare a tenere una lista da qualche parte in cui segno accuratamente tutti quelli che ho in casa e che non ho ancora letto, che alla mia età la memoria non è più quella di una volta e corro il rischio di dimenticare qualcosa (o di comprare più volte lo stesso libro, convinto di non averlo ancora preso...). Poi succede che qualcuno menzioni un libro che hai a casa, se ne parli e la persona finisca per dirti quasi incredula: "Ma come, non lo hai ancora letto?! Cosa aspetti?!".
È proprio quel "Cosa aspetti?!" che mi mette in crisi. Scegliere il prossimo libro da leggere è difficile perché ognuno di essi si è meritato in qualche modo di essere sulla mia libreria o sul mio Kindle. Come faccio a iniziare a cuor leggero A Spot of Bother di Mark Haddon quando so di avere i volumi di The Walking Dead in attesa? E ogni volta che ne scelgo uno, posso quasi sentire lo sguardo di disapprovazione degli altri volumi, che si segnano sul loro libretto nero il mio ennesimo brutto gesto nei loro confronti. Ho paura che prima o poi ne aprirò uno e lo troverò con le pagine completamente bianche, per dispetto di averlo fatto attendere così a lungo.

Non temete, libri e fumetti miei, prima o poi vi leggerò tutti, lo prometto. Ma non mettetemi fretta, per favore.

9 giugno 2011

Made in Dagenham

Ahah, no, dai, sul serio.

Quello qui sopra è il titolo originale di questa commedia inglese del 2010. I distributori italiani, non sapendo come meglio renderlo nella nostra lingua, hanno optato per lo "splendido" We Want Sex, frase che appare fugacemente durante una scena e che ha ben poca importanza nell'economia del film. Scommetto che hanno pensato che mettere "sex" nel titolo avrebbe fatto correre gli spettatori al cinema. Pensare male è brutto, ma spesso ci si azzecca.

Comunque, dicevamo, Made in Dagenham. Nel 1968 la fabbrica di automobili della Ford di Dagenham dava lavoro anche a 167 donne, tutte impiegate nel reparto addetto alla cucitura delle fodere dei sedili delle automobili. In seguito a una disputa sul riconoscimento del loro stato di lavoratrici specializzate rispetto alla loro condizione di semplici operaie generiche, e quindi di avere diritto a una paga superiore, le donne scioperarono per tre settimane di seguito. Tuttavia, lo sciopero assunse una grande rilevanza storica perché mise in discussione la pratica diffusa in tutte le industrie di pagare meno le donne rispetto agli uomini, anche a parità di ruolo e competenze. Quella che cominciò come la semplice protesta di poco meno di 200 donne portò a una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro che culminò nell'Equal Pay Act del 1970 che proibì definitivamente la disparità di trattamento in termini di paga e condizioni di lavoro tra uomini e donne.

Made in Dagenham è una commedia piacevole che ricalca un po' troppo pedissequamente il canovaccio delle storie di donne che prendono coscienza della loro condizione e delle loro capacità e lottano fino alla conquista di ciò che spetta loro di diritto. Se come film di intrattenimento funziona e ha dei momenti ottimi, grazie anche alle buone interpretazioni del cast, è l'aspetto storico del film a convincere di meno. Le azioni delle protagoniste ebbero un impatto enorme sulle condizioni di lavoro delle donne di tutto il mondo e le loro conquiste diventarono presto patrimonio di tutti i lavoratori. Purtroppo questo messaggio si perde tra le battute e le risate che il film regala ed è un peccato, perché spesso eventi come questo della nostra storia recente non sono raccontati adeguatamente.

3 giugno 2011

Piranha 3D

Tette, culi e sangue. Queste tre parole sono il sottitolo perfetto per Piranha 3D, colossal di serie B che non prova nemmeno per un minuto a prendersi sul serio e a cercare di mettere a schermo qualcosa di diverso da quelle tre paroline magiche che avete letto poco fa.

Oddio, uno straccio di trama la imbastisce pure, ma è talmente improponibile e improbabile che fa ridere solo a pensarci. Basti sapere che c'è un mucchio di piranha incazzati come delle iene (no pun intended) che si ritrova in una zona turistica durante la famosa pausa primaverile delle università americane, il che equivale per i voraci pesci a gambe, petti e braccia in abbondanza in acqua che non aspettano altro di essere sgranocchiati allegramente.

Pirahna 3D fa fondalmente ridere, anche nei momenti più [ROTFL] tragici e tesi, proprio perché gli autori si accontentano di prendere lo spettatore per i fondelli e si aspettano lo stesso identico trattamento da noi. Niente lacrimoni, niente drammi, niente paturnie, il film offre solo centimetri quadrati di pelle e carne umana staccata a brani da pesci famelici, il tutto condito da un sano senso di autoironia. Il grande cinema sta di casa decisamente altrove, ma per poco meno di un'ora e mezza, Piranha diverte in allegria, a patto di non essere troppo schizzinosi e di non soffrire la visione di abbondanti fiotti di sangue.

30 maggio 2011

The Crazies

Prendiamo fiato insieme per leggere il titolo italiano: La città verrà distrutta all'alba. Lo so, non è stato facile, ma ce l'abbiamo fatta.

Questo film del 2010 è un remake della pellicola omonima di Romero, che fa da produttore in questo caso, del 1973 e che io non ho mai visto. Mi dicono non fosse poi tutto 'sto granché ed è quindi un po' a sorpresa che questo nuovo The Crazies si rivela un gran bel pezzo di horror.
La storia è quella di una tranquilla cittadina rurale americana che diventa lo sfortunato teatro di una serie di bizzarri e mai visti prima casi di follia omicida, prima isolati e poi sempre più diffusi. Senza rivelare troppo della non certo originale trama, il film regalerà tensione, sbudellamenti e complotti governativi nelle giuste quantità.

Proprio perché il materiale di origine non era certo tra i lavori migliori di Romero, The Crazies sorprende per la sua ottima qualità. Il regista Eisner gira un film solido e ben ritmato e dosa con mestiere gli spaventi e la tensione, senza mai esagerare e scadere nello scontato. Il film è visivamente ben realizzato, piacevole da guardare, con un cast solido e non ha un momento sprecato o banale per tutta la sua durata. Io non sono un amante dei film horror generalmente, ma ho apprezzato tantissimo The Crazies, forse perché punta più sulla tensione e il ritmo più che sulla paura e perché gestisce in maniera eccellente la questione delle origini del virus e dell'intervento del governo per contenere l'epidemia.

8 maggio 2011

Winter's Bone

Ree è la protagonista diciassettenne di Un gelido inverno, film indipendente co-sceneggiato e diretto da Debra Granik. La ragazzina è la colonna portante della sua famiglia: il padre è sparito in seguito alle accuse di essere un fabbricante di metanfetamina, la madre è poco più di un vegetale, non parla e non reagisce agli stimoli esterni in seguito a un non meglio precisato trauma e tocca a Ree accudire il fratellino e la sorellina. La famiglia vive sull'Altopiano di Ozark in una comunità chiusa e ostile, un mondo così alieno per i forestieri da sembrare quasi irreale. Se le cose non fossero già abbastanza dure, Ree e la sua famiglia rischiano di perdere la loro casa se il padre non si presenterà in tribunale da lì a pochi giorni... oppure se si avrà la conferma ufficiale della sua morte.

Ree, interpretata dalla bravissima Jennifer Lawrence, combatte in un mondo di adulti nel quale persino i famigliari sono dei nemici potenziali. La ragazza si scontra con un misto perverso di solidarietà e ostilità che sembra sempre a un passo dallo sfociare nella violenza. La regista dirige quello che inizialmente sembra un dramma famigliare, ma che poi si avventura con successo dalle parti del thriller noir. Spinta da una forza interiore incrollabile e da una tragica mancanza di alternative, Ree non si arrende e lotta per il bene dei suoi fratelli e di sua madre.

Sebbene i toni siano cupi e a tratti deprimenti, la storia di Ree comunica un velato e inaspettato messaggio di speranza e calore famigliare. Il film è intenso e, manco a dirlo, decisamente consigliato. Basta non pensare di farsi delle grasse risate mentre lo si guarda.

3 maggio 2011

Easy A

Cominciamo il post con la solita lamentela per il titolo "italiano", Easy Girl, che fa perdere il riferimento a "La lettera scarlatta" e usa il solito triste inglesismo per attirare i tordi? Ma no, dai.

Easy A è una commedia giovanile omaggio ai grandi classici del maestro del genere, John Hughes, ma anche a perle come "Schegge di Follia" e, perché no, "Pump Up The Volume". La protagonista è Olive, una diciassettenne che fa l'errore di raccontare a un'amica di aver un appuntamento con uno studente universitario immaginario pur di non andare in campeggio con lei e la sua famiglia. Da questa bugia innocente scaturisce una tempesta di menzogne di cui piano piano Olive si ritroverà prigionera suo malgrado e che coinvolgerà l'intera scuola.

Easy A è decisamente un film indovinato in tutti i suoi aspetti: il cast di personaggi di supporto è splendido, con in testa la famiglia di Olive che spicca per la presenza di un sempre meraviglioso Stanley Tucci che è dio qualsiasi cosa gli dicano di fare, la sceneggiatura combina perfettamente il racconto in flashback con i passi al presente, e l'umorismo è sempre piacevole senza mai scadere nel greve o scontato. Ma quello che lo eleva al di sopra della concorrenza è la presenza di Emma Stone nel ruolo di Olive, che si conferma bellissima e bravissima al suo primo ruolo da protagonista in un film di una certa importanza.
Easy A ricattura alla perfezione lo spirito di film come "Un compleanno da ricordare" e "Breakfast Club", modernizzandolo e adattandolo ai nostri tempi. Non solo, riesce anche a fare riferimento a "La lettera scarlatta" contestualizzando il famoso libro in una storia che, solo all'apparenza, non ha nulla a che spartirci.

Insomma, Easy A è uno di quei film che guardi con il sorriso stampato sulle labbra dall'inizio alla fine e che ti lascia di buon umore per il resto della serata.

30 aprile 2011

The Kids Are All Right

Altro film sulla famiglia, dopo City Island di qualche giorno fa. La famiglia di I ragazzi stanno bene è un po' più atipica perché formata da due mamme lesbiche e due figli adolescenti, una diciottenne che sta per andare al college e un quindicenne.
La loro vita scorre tranquilla e felice fino al momento in cui i due figli decidono di rintracciare all'insaputa delle genitrici il loro padre "naturale", il donatore dello sperma che le due madri selezionarono alla banca e con il quale una delle due rimase incinta. Come è logico aspettarsi, l'arrivo dell'uomo nella routine quotidiana della famiglia creerà problemi e porterà alla luce malumori latenti in tutti i quattro componenti.

Sebbene abbia ricevuto giudizi positivi un po' ovunque e, se non ricordo male, sia stato anche candidato all'Oscar 2011 come miglior film, The Kids Are All Right non mi ha convinto. Il problema è probabilmente nell'ambiguità del messaggio comunicato e nell'indecisione della regista al riguardo. Il primo grande errore la Cholodenko lo fa quando fa finire una delle mamme, Jules interpretata da Julianne Moore, a letto con il donatore Paul, interpretato da Mark Ruffalo. Jules è chiaramente infelice nella sua relazione con Nic (Annette Bening), ma ciò non spiega perché una lesbica conclamata e convinta debba finire a letto con un uomo, per quanto bello e sexy. Passi la debolezza del momento, ma farlo più volte è una cosa che ho fatto fatica ad accettare come credibile.
La Cholodenko poi tratta sia il concetto di famiglia e affronta la questione di quanto sia difficile mantenere viva una relazione dopo tanti anni. Che sono argomenti interessanti e degni di un film, ci mancherebbe, ma la regista li pone in una maniera che porta il film a una conclusione che ho trovato totalmente insoddisfacente e forzata. Senza dimenticare la trasformazione di Paul da playboy inveterato a padre di famiglia mancato nel giro di poche scene.

The Kids Are All Right non è un brutto film, ma manca di una direzione precisa e netta e passa da una scena all'altra senza mai decidere sul serio che tipo di pellicola vuole essere: una riflessione sulle relazioni tra partner al giorno d'oggi, o sul concetto di famiglia, o vuole forse suggerire che in fondo a tutte le lesbiche piacciono ancora gli uomini? Ho anche avuto l'impressione che, nonostante le interpretazioni prese singolarmente fossero ottime, in alcuni frangenti mancasse quell'intesa tra gli attori, quella complicità che rende il tutto più godibile. Ed è un peccato, perché si intravedono degli ottimi spunti nel film che vanno purtroppo sprecati.

29 aprile 2011

Machete

Machete è uno di quei film che guardi e vuoi tantissimo che ti piaccia perché c'è l'attore protagonista simpatico finalmente in un ruolo principale dopo una carriera da caratterista, perché è un film caciarone dove ci sono le fighe, le esplosioni, gli sbudellamenti e le battute assurde e perché aveva un trailer fighissimo ancor prima di diventare sul serio un film.

Eppure, nonostante le ottime premesse, a me Machete ha annoiato. Che è pure peggio. Non è nemmeno brutto, pessimo, schifoso, è solo pigro e svogliato. Ha pochissimi momenti ispirati, dei quali, tragicamente, il migliore è nei primi cinque minuti di film, mentre tutto il resto è una serie di sbudellamenti e sparatorie che sembrano prese dal manuale del film di genere e riprodotte senza particolare voglia o ispirazione. D'accordo, c'è un po' di gnocca che non fa mai male, il sangue pure scorre piuttosto copioso, e però non mi sono bastati e mi hanno lasciato tutto sommato indifferente. Nemmeno la presenza di Sua Maestà Steven Seagal ha potuto niente.

E poi, diciamocelo, Danny Trejo, con tutto il bene che gli si può volere, è VECCHIO e, mi spiace per lui, il suo treno era passato da moooolto tempo, ben prima dell'uscita di questo film.

26 aprile 2011

City Island

Mi piace guardare i film che hanno come protagonisti i nuclei familiari. Mi piace perché di famiglia io ne ho una e ho solo quella come punto di riferimento, e mi piace vedere come funzionano le cose nelle case degli altri. Quando le cose vanno bene e quando vanno male.

City Island, scritto e diretto da Raymond De Felitta, è la storia di una famiglia di, appunto, City Island, un'isoletta che si trova davanti a New York e fa parte del quartiere del Bronx. Gli italo-americani Rizzo sono la famiglia in questione, con Vince (Andy Garcia) come padre, Joyce (Julianna Margulies) come madre, un figlio adolescente e una figlia all'università. La caratteristica di questa famiglia è che nessuno parla; o meglio, tutti parlano, fin troppo, spesso urlandosi addosso, ma senza mai davvero comunicare, terrorizzati dal peso dei loro segreti e convinti che sia più sano e sicuro nasconderli piuttosto che confidarsi con i propri familiari e cercare il loro supporto. A questa situazione particolare si aggiunge Tony, il figlio che Vince scopre di avere quando il ragazzo arriva come "ospite" nell'istituto carcerario dove lavora come guardia.

City Island è una commedia che fa bene quello che deve fare, cioè fare ridere. Andy Garcia, che io non avevo mai visto in un ruolo comico, è azzeccatissimo nella parte del padre italo-americano, combattuto tra il suo dovere e ruolo di patriarca della famiglia e il suo desiderio di fare l'attore, che incidentalmente è il segreto che non vuole rivelare a sua moglie. Gli altri membri della famiglia hanno anche loro segreti "incomunicabili" che creano la più classica commedia degli equivoci, che segue un copione già visto, ma che lo fa con un senso dell'umorismo, una sceneggiatura e una regia sempre indovinati. City Island inizia, prosegue e finisce esattamente come ci si aspetta, ma è un film piacevole come capita raramente.

7 aprile 2011

Public Enemies

Michael Mann.

Potrei non scrivere nient'altro per fare capire la mia opinione su Public Enemies, il film più recente del regista americano (ed evitiamoci di chiederci perché nel titolo italiano il nemico sia diventato uno solo).

Però alla fine uno sforzo posso anche farlo e scrivere di Public Enemies è pure bello. Uno dei nemici del titolo è John Dillinger, interpretato da un bravissimo e bellissimo Johnny Depp, il rapinatore di banche che negli anni '30 divenne uno degli obiettivi principali della guerra contro il crimine lanciata da J. Edgar Hoover, direttore del Bureau of Investigation (che nel 1935 divenne l'FBI). La nemesi di Dillinger fu Melvin Purvis, un agente del Bureau interpretato da Christian Bale, che inseguì il rapinatore per anni e infine organizzò e partecipò all'azione che portò alla morte di Dillinger per le strade di Chicago nel luglio del 1934.

Mann non perde tempo a raccontarci il passato di Dillinger, si limita a mettere a schermo Depp bello come un dio greco, macho e sprezzante del pericolo e dell'autorità giudiziaria. Altrettanto fa con i personaggi di contorno, Purvis e Billie Frechette, la compagna di Dillinger, interpretata da una bravissima e splendida Marion Cotillard. Sono definiti dai loro comportamenti, dalle loro parole, dai loro sguardi e sta allo spettatore interpretarli e godere del come al solito ottimo lavoro di Mann. In particolare, la direzione artistica è particolarmente ispirata, con il film quasi interamente girato nei luoghi realmente frequentati da Dillinger.

Ma insomma, alla fine si tratta di un film di Mann, con le sue inquadrature, i suoi movimenti di camera, i suoi primi piani. Forse è più freddo e distaccato di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, ma a me va benissimo così.

4 aprile 2011

The Arbor

Nel 2007, una donna inglese fu condannata per essere responsabile dell'omicidio colposo di suo figlio di due anni, morte causata da un'overdose di metadone. La donna era un'eroinomane con un passato di prostituzione, abusi da parte di uno dei suoi partner e la morte della madre di 29 anni quando lei ne aveva solo 10. Questa storia ebbe grande risonanza sui giornali e le televisioni inglesi, ovviamente, ma ciò fu dovuto anche all'identità della donna: lei era Lorraine Dunbar, figlia di Andrea Dunbar, l'autrice di tre pièce teatrali molto famose nel Regno Unito, nata e cresciuta in un'area popolare di Bradford, alcolizzata e morta, come già scritto, a 29 anni a causa di un'emorragia cerebrale non prima di avere avuto due figlie e un figlio da tre uomini differenti, di cui Lorraine è la più grande.

The Arbor di Clio Barnard è un documentario che racconta, attraverso interviste a Lorraine e ad altri membri della famiglia, amici e conoscenti dei Dunbar, la tragica storia di Lorraine e lo sconcertante parallelo tra la sua vita e quella di sua madre. Tutte le interviste sono fatte in presa diretta alle persone vere, ma, a parte qualche filmato d'epoca, sono sovrapposte alle interpretazioni di attori veri. Questo stratagemma evita che The Arbor si trasformi in quella pornografia emotiva che fin troppo spesso si vede nella televisione moderna e fa sì che la tragicità della vicenda e dei racconti sia veicolata in tutta la sua terribile crudezza, senza filtri di nessun tipo. Le interviste sono inframmezzate da brevi tratti della prima opera della Dunbar, The Arbor appunto, recitati sulle strade dove Andrea è nata e cresciuta di fronte a un pubblico formato dagli abitanti della zona.

The Arbor è un'opera di una tristezza indicibile, deprime e lascia un reale senso di angoscia, ma è anche un film realizzato in maniera brillante e creativa.

30 marzo 2011

Amer

Ecco, scrivere di Amer mi mette un po' difficoltà. Questo film francese è un chiaro omaggio alla tradizione dei film horror e gialli italiani degli anni '70, di cui "Profondo rosso" è probabilmente il titolo più famoso e genere di cui io penso di aver visto giusto il film di Dario Argento. Ed è per questo che non sono certo di aver colto tutti i riferimenti e gli omaggi al passato di cui i registi e autori Hélène Cattet e Bruno Forzani hanno fatto abbondante uso. O di aver capito davvero il film. L'impostazione visiva, sonora e narrativa ci mette anche del suo, rendendo piuttosto difficoltoso seguire la vicenda e mettere insieme i pezzi di quel poco di storia raccontata.

Il film è suddiviso in tre episodi separati e con in comune la protagonista bambina nella prima parte, adoloscente nella seconda e adulta nella terza. La trama è praticamente inesistente e fa una timida apparizione verso la fine del film, percorso inverso dei dialoghi che spariscono letteralmente andando avanti, mentre il resto di Amer è un caleidoscopio di colori, suoni e primi piani estremi, conditi da una costante ed evidente carica erotica che pervade quasi tutti gli elementi della pellicola.

Dire che Amer mi sia piaciuto è forse troppo, con quel suo tirarsela spudoratamente da film d'essai. Non che non ne abbia la possibilità, perché alcune sequenze sono davvero ben realizzate, ma si ha l'impressione che ci sia molta più apparenza e attenzione allo stile che non alla sostanza narrativa. Gli amanti del genere probabilmente lo apprezzeranno molto più di quanto abbia potuto fare io, che mi sono limitato soprattutto a notare l'ottima realizzazione e l'indubbio stile. Ci avessero messo anche un po' di sostanza sarebbe stato meglio però, quello sì.

26 marzo 2011

Restrepo

Nato dalla collaborazione tra un fotografo inglese e un giornalista americano, Restrepo è uno sguardo impietoso e senza filtri su quello che passano i soldati americani in Afghanistan e che immagino non si discosti molto dalla vita dei soldati impegnati altrove. I protagonisti sono i 49 membri della Battle Company dei marine americani, impegnati per 15 lunghi mesi nella valle di Korengal, tristemente famosa per essere la località più pericolosa di tutto l'Afghanistan, e in particolare i 15 membri assegnati all'avamposto Restrepo, chiamato così in onore del primo membro della squadra ucciso.

Senza la benché minima struttura narrativa, il documentario alterna scene di combattimento e di vita quotidiana alle interviste fatte ai sopravvissuti. Le scene di combattimento sono terribili nel loro crudo realismo e fanno realizzare quanto false siano tutte le fesserie che ci rifilano giochi come Call of Duty e soci: i combattimenti si svolgono contro nemici invisibili, talvolta lontani centinaia di metri, altre volte così vicini da poterli sentire. Nemici che hanno il vantaggio di conoscere alla perfezione l'area, mentre gli americani hanno poche e incomplete informazioni e lottano quasi alla cieca. Per quanto sia difficile commiserare gente come il capitano della squadra, le interviste agli altri membri del plotone, la maggior parte dei quali sono poco più che ragazzi, fanno solo intuire quali cicatrici possano lasciare 15 mesi passati sotto la costante minaccia di un nemico invisibile.
Il documentario mostra anche quanto inefficace e inadeguata sia la tattica degli americani, che affida ai soldati il compito di trattare con la popolazione locale, nel vano tentativo di convincerli a collaborare con loro, in cambio di promesse di fantomatici lavori e strade. E quanto altrettanto inadeguato sia il supporto post-missione per i soldati, molti dei quali sono chiaramente affetti da disturbi post traumatici da stress.

Restrepo suscita sentimenti contrastanti, tra il rifiuto per la guerra e la compassione per i soldati, impegnati a combattere una guerra che non possono vincere, e, sebbene gli autori abbiano sempre dichiarato che non abbia intenzioni politiche, è un chiaro omaggio ai marine e al lavoro che svolgono quotidianamente. Si potrà non condividere le loro motivazioni, ma è difficile rimanere impassibili di fronte alle loro vicende e ai loro racconti.

A margine, va ricordato che Restrepo era giustamente tra i candidati all'Oscar di quest'anno nella categoria per il miglior documentario.

23 marzo 2011

Mother (Madeo)

Mother di Joon-ho Bong, autore di The Host tra le altre cose, appariva in molte delle liste dei film migliori del 2010, tra cui anche quella di Quentin Tarantino, per menzionarne una a caso. E in effetti queste apparizioni Mother se le merita tutte. Ma andiamo con ordine.

Doo-joon è un bel ragazzo, ma è anche un po' ritardato. Sta sempre in compagnia di Jin-tae, un coetaneo che gli è amico tanto quanto lo prende in giro per il suo handicap, e vive con l'apprensiva madre che vorrebbe tenerlo sempre con sé per proteggerlo dagli abitanti del piccolo paese dove vivono e dai mali del mondo. Una mattina una ragazzina del vicinato viene trovata morta sul tetto di un rudere abbandonato e la polizia arresta immediatamente Do-joon, convinta della sua colpevolezza e al quale strappano una confessione in pochi minuti. La madre tuttavia è certa dell'innocenza di suo figlio e farà di tutto per provarla.

Le premesse del film sono semplici, ma il suo svolgimento è tutt'altro che scontato e riserva più di una sorpresa. Per quanto non raggiunga mai vette di tensione insostenibile, Bong gestisce con abilità la storia danzando tra thriller, dramma famigliare e commedia, con flash di inaspettata e viscerale violenza. Non solo, Bong non manca di inserire elementi di satira sociale, melodramma e una vicenda che è una tragedia nel senso più greco del termine. La regia è precisa e puntuale, la cura dell'immagine è ai massimi livelli, la colonna sonora e la sua sinergia con le scene sono tra le migliori che abbia potuto apprezzare negli ultimi tempi.
Lasciando da parte le perplessità sul comportamento della polizia nel film (che valore legale può avere una confessione fatta da una persona chiaramente ritardata e al quale non è stato nemmeno assegnato un avvocato d'ufficio?), Mother è un film bellissimo, impreziosito dalla meravigliosa interpretazione di Hye-ja Kim nel ruolo della madre, bravissima e perfetta nel ritrarre la determinazione e le contraddizioni della donna.

Non che ci fossero dubbi al riguardo, ma Mother conferma ancora una volta l'altissima qualità del cinema sud-coreano ed è senza ombra di dubbio uno dei film più belli che abbia mai visto.

8 marzo 2011

Mary and Max

Ogni lingua ha le sue parole belle. Prendete "quirky" in inglese, che significa "eccentrico", "peculiare". Ecco, una parola così perfetta, come suono e significato, in italiano non mi viene per descrivere Mary and Max, film di animazione australiano del 2009 e che qui nel Regno Unito è uscito a ottobre 2010.

Basato su una storia vera, Mary and Max racconta di, pensa un po', Mary e Max. La prima è una bambina australiana complessata, insicura, trascurata dai genitori e senza amici, Max è un uomo altrettanto solo che vive a New York, affetto dalla sindrome di Asperger. Un giorno Mary prende un nome a caso da un elenco telefonico trovato in un ufficio postale e gli scrive una lettera; ovviamente quel nome è quello di Max. Da quell'evento totalmente casuale nasce una strana e complessa amicizia a distanza tra due persone separate da circa 40 anni, migliaia di chilometri e una decina di ore di fuso orario. Eppure, nonostante tutte queste differenze, il loro rapporto cresce e va avanti, pur non senza incidenti, perché alla fine, la solitudine e il bisogno di contatti umani sono elementi comuni nelle persone di qualsiasi età ed estrazione sociale e perché Mary e Max avevano in comune molto più di quanto si potesse sospettare e la loro amicizia era reale, concreta.

Completamente realizzato in claymation, Mary and Max ha un aspetto originale con colori sobri e personaggi bizzarri e, confronto all'aspetto solare e brillante di film come Toy Story 3 e How To Train Your Dragon, richiede un attimo di pazienza per essere digerito dall'occhio. Ma una volta che ci si è abituati allo stile particolare, la splendida realizzazione è il perfetto complemento per una bella storia sulle persone e sui rapporti di amicizia che si instaurano tra di loro. Ah, e il doppiaggio originale è spettacolare.

4 marzo 2011

How To Train Your Dragon

Sottotitolo: non si vive di sola Pixar. Sottotitolo (per modo dire) italiano: Dragon Trainer.

È quasi brutto dover sempre mezionare la Pixar quando si parla di altri film di animazione, ma non è mica colpa mia se il loro film meno bello (perché brutto di certo non è) è Cars, mentre tutti gli altri sono uno più bello dell'altro. Altrettanto non si può dire della Dreamworks, che ha avuto alti e bassi nella sua produzione, ma forse mai nessun film davvero in grado di rivaleggiare con quelli della Pixar. Le cose però sono cambiate con questo Dragon Trainer (uso il titolo italiano che è più breve, dai, che HTTYD non si può leggere). Intanto perché finalmente hanno finalmente smesso di fare film con lo stampino se dio vuole e hanno scritto una storia semplice, ma che ha la giusta combinazione di elementi comici, drammatici e quel pizzico di dolcezza che non guasta quasi mai. Poi hanno azzeccato i personaggi, tutti, dal protagonista fino all'ultimo dei vichinghi che fa numero. Hanno personalità, sono credibili esteticamente ed emotivamente. Il drago poi è spettacolare, forse un pelino troppo felino in alcuni momenti, ma come si fa resistere a quegli occhioni?

La trama è piuttosto scontata, ma è scritta e sviluppata talmente bene che non ci si fa caso e racconta una bella storia di un ragazzino che cresce, prende coscienza di se stesso e delle sue capacità grazie all'improbabile amicizia con un drago. Il tutto condito da un po' di retorica pro-animalista, che non guasta. La realizzazione tecnica del film è semplicemente spettacolare, è tutto praticamente perfetto; i dettagli come la pelle del drago, oppure le scene di volo (peccato non averle viste in 3D) o le scene di azione, tutto è a livelli altissimi.

L'Oscar per il miglior film di animazione quest'anno è andato meritatamente a Toy Story 3, ma sarebbe stato giustissimo anche se avesse vinto Dragon Trainer.

25 febbraio 2011

Inception

Dai, ci ho messo solo circa sei mesi per vedere Inception, affittato in alta definizione dal PlayStation Network perché LoveFilm ci stava mettendo troppo a inviarmelo. Ma i film non hanno data di scadenza, quindi chi se ne frega.

Comunque, dicevamo, Inception. Ho cercato di leggerne il meno possibile per evitare di avvicinarmi al film con in testa l'opinione di qualcun altro e, anche se non ci sono riuscito proprio del tutto, alla fine è stato meglio così. Intanto perché Inception mi è piaciuto un botto, ma proprio tanto, nonostante qualche diffettuccio che avrebbe affossato senza appello altri film. Cristopher Nolan però non è uno qualsiasi, ed è grazie a lui che Inception è così bello. A livello di regia, mi trovo d'accordo con la mancata nomination agli Oscar: per quanto si spari le pose in un paio di scene molto belle, Nolan non fa niente di straordinario e anche gli attori si limitano a fare il loro compitino senza però entusiasmare. Anche i dialoghi sono un po' legnosetti, e in più di un'occasione sembrano scritti con il solo obiettivo di spiegare allo spettatore la trama piuttosto che approfondire la psicologia dei personaggi.
Cos'è quindi che fa di Inception un film così bello? La trama e la sceneggiatura: la prima è originale e complessa al punto giusto, mentre la seconda è semplicemente perfetta. A parte un avvio forse un pelino lento, il film non ha un pezzo fuori posto, il ritmo narrativo non manca un colpo e aumenta incessantemente fino alla conclusione, una fine che per una volta non è né forzata, né deludente. Insomma, ho aspettato mesi per vedere Inception, ma ne è valsa decisamente la pena.

A margine, Inception non mi è sembrato particolarmente complicato. D'accordo, è più complesso del cinepattone a cui è abituato lo spettatore medio, ma non richiede niente di più di semplice attenzione durante il film. Del resto, non si può certo pretendere di capirci qualcosa se mentre si guarda il film si scrivono cazzate su Facebook col cellulare.

22 febbraio 2011

Black Dynamite

Fare film di merda è un'arte. Non ci si improvvisa registi alla Uwe Boll dall'oggi al domani, ci vogliono predisposizione naturale e una marcata inettitudine. Alcuni film di merda sono brutti e basta, annoiano senza possibilità di appello, ma altri sono così terribili da fare il giro e diventare [quasi] belli.

Negli anni '70 e '80 il genere dei film d'exploitation divenne piuttosto famoso soprattutto per la quantità di pessime pellicole prodotte. Infatti uno dei capisaldi del genere è un'attenzione pressocché nulla alla qualità del film per invece puntare tutto su determinati elementi estetici e contenutistici (i.e. tette, violenza e musica di un certo tipo) per raggiungere una precisa porzione del pubblico. All'interno di questo filone cinematografico si identificano molti sottogeneri (un po' come i fetish sessuali, dai) tra cui il Blaxploitation che abusava di svariati cliché razziali, accompagnati da protagonisti di colore e colonne sonore funk e soul e di cui Black Dynamite riprende tutti gli stilemi per farne una parodia.
È chiaro dal primissimo istante che Black Dynamite non ha la minima intenzione di prendersi sul serio nemmeno per un momento e in poco più di 80 minuti colleziona tutti gli orrori che gli amanti del genere hanno imparato ad adorare: recitazione pessima e sempre sopra le righe, storie improbabili, montaggio completamente a caso, dialoghi così ridicoli da essere [in]volontariamente comici, kung fu e tette e pure un microfono volutamente in scena durante un dialogo.

Forse Black Dynamite esagera con la parodia, ma probabilmente è perfetto per coloro che conoscono bene il genere di riferimento e possono cogliere tutte le battute, ma nonostante io non sia uno di questi conoscitori, ammetto di aver riso, e tanto, per tutto il film, con alcune scene e alcune battute semplicemente memorabili.

19 febbraio 2011

Whip It

Quante volte ci hanno raccontato la storia di un protagonista adolescente o giù di lì, in conflitto più o meno acceso con uno o entrambi i genitori e che trova una via di fuga e se stesso in un qualcosa di totalmente alieno al suo mondo, così estraneo da avere la necessità di tenerlo nascosto ai genitori, che ovviamente inizialmente disapprovano, ma che poi finiscono per approvare ed esserne felici? Ecco, Whip It è solo l'ennesimo film che va aggiungersi a questa lista e sicuramente non sarà l'ultimo a farlo.

Non che questo sia un problema, eh, anzi. Intanto perché in Whip It c'è Ellen Paige, che a me piace tanto tanto, e poi c'è pure Zoe Ball, che spacca sempre e comunque. Ma è tutto il cast a funzionare, con tutti i suoi membri azzeccati per il ruolo e sempre in sintonia tra di loro. Non so, magari me lo sono immaginato io, ma Whip It mi ha dato l'impressione di essere uno di quei film in cui tutti quelli che ci hanno lavorato si sono divertiti un casino a farlo, persino, e forse soprattutto, quando le ragazze si gonfiano di pattoni coi pattini ai piedi, oppure quando Babe Ruthless, il personaggio di Ellen Paige, litiga con Iron Maven, interpretata da Juliette Lewis.

Ah già, i pattini. Whip It è pure un film di sport, genere che a me piace di solito, e in questo caso lo sport è il roller derby, praticato a quanto pare solo da donne. Per quanto sia una disciplina atipica, il roller derby si presta comunque a riprendere i temi comuni a tanti film sportivi: il senso di famiglia all'interno della squadra, i compagni che diventano amici e supporto nei momenti difficili, la crescita dei membri come atleti e come persone, e Whip It racconta tutto questo.

Al suo esordio alla regia, Drew Barrymore con Whip it non fa niente che non sia già visto o sentito in precedenza, ma insomma, lo fa con tanto sentimento e tanta onestà e non si può non apprezzarne il bel risultato.

16 febbraio 2011

The Secret of Kells

Ammetto subito la mia ignoranza: non avevo idea di che cosa fosse il Libro di Kells prima di vedere questo film e, ovviamente, ignoravo completamente che fosse un tomo realmente esistente, conservato nella biblioteca del Trinity College di Dublino.

Detto questo, The Secret of Kells è un film di animazione che inganna e che nasconde sotto un aspetto tanto dolce e puccioso una storia meno ovvia di quanto si possa sospettare. Quella di Brendan potrebbe essere a una prima occhiata la classica storia dell'adolescente che diventa, mentalmente e fisicamente, un adulto, ma gli elementi che fanno da contorno complicano la faccenda. Forse fin troppo, perché gli 80 minuti scarsi di durata fanno fatica a raccontare adeguatamente la vicenda, soprattutto nelle sequenze conclusive che sono un po' tirate via, ma la realizzazione estetica del film è così bella e ammaliante che alla fine non ci si fa davvero caso.
Il regista Tomm Moore pesca a piene mani dalla tradizione cristiana e dal folklore irlandese e li usa per creare una favola classica, impreziosita da un'estetica semplicemente meravigliosa che rende giustizia al libro da cui prende ispirazione e di cui riprende la forma prettamente bidimensionale del disegno su carta. Di film di animazione ce ne sono molti, ma pochi hanno un'identità e una forza tale da essere in grado di narrare attraverso le sole immagini, anche riducendo l'audio a zero, e The Secret of Kells è uno di questi.

3 febbraio 2011

Carlos The Jackal

I film biografici si dividono grossonalmente in due categorie: quelli che richiedono la previa conoscenza della storia narrata per poter essere apprezzati e quelli che invece sono godibili anche senza sapere niente. Esempio della prima categoria: La Vie en Rose. Esempio della seconda categoria: Mesrine. E combinazione sia questi due film che Carlos The Jackal sono produzioni francesi.

Carlos fa parte della prima categoria, quella dei film che ti fanno capire poco e niente e se non sai come sono andate davvero le cose, sono cazzi tuoi. C'è da dire però che a parziale discolpa, o aggravante, Carlos il film è in realtà una versione adattata per il cinema dell'omonima serie televisiva che dura circa il doppio. Viene quindi naturale pensare che nel telefilm le cose vengano spiegate e descritte come si deve.
Eh sì, perché nel film ci viene raccontata la storia di Ilich Ramírez Sánchez, in arte Carlos lo Sciacallo appunto, un terrorista venezuelano che a cavallo tra gli anni '70 e '80 ha compiuto svariati attentati e attacchi, tra il cui il famoso attacco alla conferenza dell'OPEC a Vienna nel dicembre del 1975. Il problema sorge nel momento in cui ci si chiede perché un venezuelano di chiara ideologia comunista combatta prima per la causa palestinese, poi si allei con gli iracheni, i siriani e poi finisca in Sudan dove, nel 1994, sarà finalmente arrestato dalla polizia francese e deportato in Francia per essere processato per l'omicidio di due agenti dei servizi nazionali e di un presunto informatore. Le motivazioni di Carlos sono molto vaghe, si intuiscono, ma non è mai davvero spiegato perché faccia quello fa. Come se non bastasse, per più della metà del film Carlos non combina letteralmente un cazzo, non ammazza nessuno, non fa scoppiare nessuna bomba, si limita a viaggiare da un paese arabo all'altro, a bere e a trombare (chiamalo scemo).

E il pensiero torna alle cinque ore e mezza della serie televisiva e alla sensazione che in quelle quasi tre ore in più (il film dura due ore e tre quarti) ci siano le risposte a tutti i dubbi che Carlos come film lascia. Viene da chiedersi perché non abbiano fatto come Mesrine o Che e diviso il tutto in due film invece di farne uno solo, ma ormai è troppo tardi, e dubito che recupererò mai la serie intera. Per lo meno il film è girato ottimamente ed Edgar Ramirez nel ruolo di Carlos è spettacolare, quello sì, però del Carlos terrorista non ne so molto più di quanto non ne sapessi prima di guardare questo film.

31 gennaio 2011

Io sono l'amore

La famiglia Recchi, come entità unica, è la protagonista perfetta di Io sono l'amore: ricca sfondata, snob, elegante, melodrammatica. E così è il film di Luca Guadagnino, che racconta le vicende di questa famiglia dell'alta borghesia milanese proprietaria di una affermata ditta del settore tessile. Il film inizia con una cena per festeggiare compleanno del nonno, patriarca che ha fondato la fabbrica che ha fatto la fortuna della famiglia e che ha deciso che è giunto il momento di passare il testimone a suo figlio Tancredi e al nipote Edoardo. Questa scelta sarà l'inizio di una serie di eventi che stravolgerà per sempre la vita dell'intera famiglia.

Come scritto poco sopra, "Io sono l'amore" è un film snob e altero che racconta una storia che, a voler essere cattivi, è poco più di un melodrammone da soap opera pomeridiana, ma lo fa con un'eleganza e una cura per l'immagine che fanno soprassedere sui limiti della trama. Anche il cast è in gran forma, con una Tilda Swinton, che parla un "perfetto" italiano con accento russo, nel ruolo della madre della famiglia bravissima come al solito. E poi c'è la colonna sonora, invadente, ma anche splendidamente in sintonia con il film.
"Io sono l'amore" è un film esteticamente e stilisticamente meraviglioso. Non mi ha coinvolto molto emotivamente, e qui forse è colpa mia e del mio cuore di pietra, ma è stato comunque un gran piacere da guardare. Di film girati così bene non ce ne saranno mai abbastanza.

22 gennaio 2011

La speranza è l'ultima a morire

Tra le serie televisive che seguo regolarmente c'è anche How I Met Your Mother, però ultimamente (diciamo da tre stagioni a questa parte), mi chiedo perché continui a farlo. La qualità di questo telefilm è crollata e, anche se sembrava che le cose fossero migliorate leggermente nella serie attualmente in corso, gli ultimi episodi sono tornati al pessimo livello a cui mi sono abituato. Ed è per questo che, appunto, mi chiedo per quale recondito motivo spenda 20 e rotti minuti una volta alla settimana per guardare qualcosa che sono quasi sicuro che mi deluderà.
Non sono affetto da qualche disturbo ossessivo-compulsivo che mi spinge a guardare fino alla fine tutte le serie televisive che comincio... o almeno non penso. Del resto, di telefilm che ho mollato ce n'è per così: per esempio Heroes (alla prima puntata della seconda serie), Breaking Bad (che nonostante gli ottimi commenti letti in giro, non mi ha spinto ad andare oltre la prima serie), The Sarah Connor Chronicles (abbandonata causa sopraggiunta noia a circa metà della seconda e ultima serie).

E allora perché non stacco la spina anche dalle macchine che tengono in vita artificialmente il mio interesse, ridotto ormai al lumicino, per How I Met Your Mother? A differenza dei tre telefilm nominati poco sopra che non hanno mai raggiunto livelli di eccellenza, le prime tre serie di How I Met Your Mother sono spettacolari. Ce le ho ancora a casa nei cofanetti di DVD e ricordo che guardai i circa 66 episodi in pochi giorni. Ed è per questo che probabilmente continuo a guardare le nuove puntate, con l'inconscia speranza che quella nuova sia quella che finalmente riporta la serie agli ottimi livelli delle prime tre serie. Ci sono stati episodi divertenti negli ultimi tre anni, ci mancherebbe, ma sono sempre stati casi isolati, sprazzi di ispirazione del passato che non duravano mai più di una puntata, magari due di seguito quando andava bene.

Forse dovrei mettermi l'anima in pace e smettere di guardarla, ma ormai siamo oltre la metà di questa serie, non mi costa niente arrivare alla fine. Finirò per ripromettermi ancora una volta che questa è l'ultima serie che guarderò, per poi ricominciare a seguirla a settembre. E poi che cribbio, voglio sapere chi è la mamma.

13 gennaio 2011

In The Loop

Le decisioni prese dai potenti, dai politici eletti democraticamente spesso ci fanno incazzare come delle iene, e il più delle volte non sappiamo a come sono arrivati a quella decisione. Ignoriamo i giochi di potere che avvengono dietro le quinte, gli scambi, le trattative, i compromessi, le promesse che i vari protagonisti si scambiano per ottenere quello che vogliono o, per lo meno, limitare i danni. Il che è un bene, mi verrebbe quasi da pensare.

In The Loop è una commedia satirica che mostra quello che accade dietro le quinte mentre la Gran Bretagna e gli Stati Uniti stanno cercando di convincere il resto del mondo che è il caso di dichiarare guerra (non è specificato a chi, ma il riferimento alla guerra contro l'Irak è piuttosto chiaro). Ovviamente non tutti sono d'accordo da entrambi i lati dell'Atlantico e nel mezzo ci finisce Simon Foster, il non proprio sveglissimo ministro dello sviluppo straniero (o qualcosa del genere) che, a causa delle sue inopportune dichiarazioni, si ritrova conteso tra i guerrafondai e i pacifisti.
I dialoghi e le situazioni fanno ridere, di gusto, ma lasciano anche l'amaro in bocca perché lasciano il dubbio su quanto somiglino alla realtà. Poi ci sono un mucchio di attori tanto bravi sui quali svetta Peter Capaldi nel ruolo dello sboccatissimo spin doctor del governo inglese. Girato con uno stile da finto documentario, con inquadrature deliberatamente scomposte, l'impressione è quella di essere una mosca che osserva indisturbata l'indegno spettacolo politico. E viene da chiedersi se la dichiarazione di guerra all'Irak sia stata risolta in un modo tanto pietoso e grottesco.

10 gennaio 2011

Catfish

La prima regola di Catfish è non parlare di Catfish. Meno si sa di questo documentario quando si comincia a guardarlo e meglio è. Non che sia un giallo complicatissimo con colpi di scena che si susseguono per tutta la sua durata, ma riesce comunque a sorprendere e coinvolgere. E l'assassino non è il pesce gatto.

Senza rivelare troppo, Catfish è un documentario realizzato da Henry Joost e Ariel Schulman che ha come protagonista il fratello di quest'ultimo, Yaniv, in una relazione interpersonale nata e cresciuta nell'era di Facebook e del GPS.
È un documentario intelligente e girato con notevole talento. Certo, si potrebbe discutere all'infinito su alcuni suoi aspetti (usate i commenti, se volete farlo, senza paura degli spoiler, mentre chi non lo ha ancora visto se ne tenga alla larga), ma è decisamente un film moderno in tutti i sensi del termine, sia per l'argomento che per la sua realizzazione, stimolante e interessante proprio per quegli aspetti che lo rendono "controverso" (le virgolette sono usate apposta).

Nota di colore: qui a Londra il film è uscito quasi contemporaneamente nei cinema e in DVD.

7 gennaio 2011

Dogtooth (Kynodontas)

Vi capita mai di finire di guardare film e di non essere del tutto sicuri del perché un film vi sia piaciuto o vi abbia fatto schifo? Ecco, a me è successo con Dogtooth (Kynodontas), film greco del 2009 che ha vinto una quantità di premi a vari festival cinematografici sparsi per il globo. Ed è facile capire perché li abbia vinti: Dogtooth è originale, strano, inquietante, bizzarro, grottesco, comico, drammatico, girato con gusto e abilità. Però è anche un film difficile da guardare, uno di quelli per cui immagino sia difficile avere un giudizio neutrale, o lo si odia o lo si ama.

Ma di che parla Dogtooth? È la storia di una famiglia che vive in una casa con un bel giardino, una piscina e una recinzione alta che impedisce la vista a chi sta fuori così come a chi sta dentro. La famiglia è composta da padre, madre, un figlio e due figlie, e il padre è l'unico che lascia la casa per andare a lavorare mentre gli altri non hanno nessun contatto con il mondo esterno, a parte le visite occasionali di Christina, una ragazza pagata dal padre per soddisfare i bisogni sessuali del figlio. I genitori sono anche l'unica fonte di istruzione per i figli, che ascoltano cassette registrate che insegnano loro il significato delle parole nuove, con la particolarità che questi significati sono modificati dai genitori. E così gli "zombie" diventano un tipo di fiorellini gialli, mentre il "mare" è una poltrona di pelle che si trova in salotto. Le motivazioni dietro il comportamento psicopatologico dei genitori, e in particolare del padre, non sono mai spiegate chiaramente, si intuiscono soltanto, e questa incertezza contribuisce al senso di disagio creato nello spettatore. Tutti gli aspetti di una normale vita familiare sono deformati, persino l'incesto non sembra fuori posto in quella casa.

Sia chiaro, a me Dogtooth è piaciuto, però non è uno di quei film piacevoli da guardare, tutt'altro. Essere testimoni dei meccanismi che regolano la quotidianità dei membri della famiglia, dei quali non conosciamo nemmeno i nomi, è faticoso e inquietante, ma è anche appassionante in maniera perversa, un po' come lo è soffermarsi a guardare un incidente stradale.

A margine, pensavo che solo i sud-coreani e i giapponesi riuscissero a fare film da fuori di testa completi, ma vedo che anche i greci sono messi bene.

3 gennaio 2011

Les 7 jours du talion

Il taglione, quella legge che nell'antichità prevedeva che il colpevole di un crimine fosse punito con lo stesso danno inflitto alla vittima. Occhio per occhio, dente per dente, in pratica.

In Les 7 jours du talion, film canadese diretto dall'esordiente Daniel Grou, i sette giorni del taglione del titolo sono quelli che il protagonista Bruno Hamel passa in compagnia dell'assassino e stupratore di sua figlia undicenne, dopo averlo rapito quando era già stato arrestato dalla polizia. E sì, è la classica storia già sentita di un padre che si trasforma in giustiziere, convinto che la punizione che il maniaco riceverà dalla corte non sarà sufficiente e che vendicarsi con le proprie mani gli farà superare il dolore causato dalla morte violenta della figlia. È per questo che Hamel decide di torturare per una settimana l'assassino, in una baita lontana da occhi indiscreti, mentre la polizia è sulle sue tracce per bloccarlo.

Les 7 jours du talion è un film lento, ma inesorabile. Mentre lo guardavo ero convinto di averne visto sì e no un'ora scarsa e invece, quando ho guardato l'ora, mi sono accorto che ero quasi alla fine dell'ora e 50 di durata. Sembra non finire mai e l'argomento e le scene violente ne appesantiscono lo svolgimento, ma cattura e coinvolge. Il merito è sicuramente della regia e della sceneggiatura, entrambe solide e mature, ma anche delle interpretazioni degli attori, tutte di altissima qualità. Non è decisamente il film ideale per una serata spensierata da passare in dolce compagnia e l'argomento e le scene vuolente potrebbero risultare sgradite ai più sensibili, ma dà al genere del torture porn una maggiore e gradita nuova dimensione.
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