30 aprile 2010

The Curious Case of Benjamin Button

David Fincher è uno con le palle. Un po' perché riesce a fare film molto diversi l'uno dall'altro senza troppi problemi e un po' perché riesce ad adattare la sua regia alla storia che sta raccontando.

Basato molto liberamente su un racconto breve di F. Scott Fitzgerald, The Curious Case of Benjamin Button è la storia di un uomo. Il fatto che, al contrario di tutte le altre persone, quest'uomo sia nato vecchio e crescendo ringiovanisca è tutto sommato di secondaria importanza, perché il film è davvero la sua storia. Senza fronzoli, senza metatesti, messaggi nascosti, morali, allegorie o metafore di sorta. È solo la sua vita, simile a quelle di tante altre persone.
Nonostante la non indifferente durata che si avvicina alle tre ore, Benjamin Button non annoia mai e cattura con la sua semplicità, con la sua regia indovinata e con un cast di personaggi meraviglioso, impreziosito dalle interpretazioni di un Brad Pitt in forma smagliante e una Cate Blanchett che non potrebbe essere più bella (ma VERAMENTE bella) e brava di così. Menzione d'onore anche per Tilda Swinton in un ruolo minore, che io riesco quasi ad adorare persino quando fa la cattiva in Narnia, figuriamoci qui.
Come struttura narrativa e sviluppo il film mi ha ricordato molto Forrest Gump, e non è un caso perché Eric Roth ha sceneggiato entrambe le pellicole, ma questo non è un difetto: Benjamin Button è proprio un bel film, girato con un gusto e tocchi di classe qua e là e con una storia agrodolce.

Bravo David.

26 aprile 2010

Superbad

Ok, sto invecchiando. È naturale, devo accettarlo, ci passano tutti, devo farmene una ragione. Cioè, meglio rendersene conto guardando un film "da ridere" piuttosto che grazie alle occhiatacce delle ventenni in minigonna sui treni, però non è bello lo stesso.

Comunque, dicevo. Mottola mi aveva già fatto venire questo sospetto con il suo secondo film, Adventureland, ed è stato il suo film d'esordio, Superbad, a darmene la conferma.
Superbad è uno dei tanti film che parlano di amicizia e di ragazzi che si accorgono che stanno per diventare adulti e che le cose cambiano. Come da copione, non mancano nemmeno le solite tempeste ormonali e i soliti, disperati tentativi di trombare. È sboccato all'inverosimile, ma non scade [quasi] mai nel cattivo gusto, fortunatamente.
I film all'inizio funziona e mi ha fatto ridere di gusto, poi, a un certo punto, arrivano due poliziotti, interpretati da Seth Rogen e Bill Hader, e va tutto in vacca. No, tutto no. Alla fine sarebbe bastato tagliare praticamente tutte le parti in cui c'erano loro e avremmo avuto un film decente. Invece così abbiamo un terzo di una commedia di quasi due ore (Mottola deve imparare a tagliare, mannaggia a lui) di cui avrei fatto volentieri a meno. Per il resto del film ha dei buoni momenti e i due protagonisti sono azzeccati, così come lo sono le interpretazioni di Michael Cera e Jonah Hill. Ed Emma Stone e la sua voce rullano. Peccato per quei due poliziotti imbecilli.

22 aprile 2010

District 9

District 9 di Neill Blomkamp è un film di fantascienza ambientato ai giorni nostri. Fantascienza perché ci sono degli alieni che, nel 1982, arrivano nei cieli di Johannesburg con la loro bella astronave che rimane sopra la città, ma senza uscirne e senza tentare di comunicare in nessun modo. Dopo tre mesi di supposizioni, gli umani decidono di entrare nell'astronave e trovano circa due milioni di alieni in condizioni fisiche pietose, in quella che diventa la prima emergenza umanitaria intergalattica. Con gli anni, l'area dove sono stati sistemati gli alieni è diventata di fatto un ghetto, mal sopportato dalla popolazione umana che vive nelle vicinanze. Così la Multinational United riceve il compito di far trasferire, con le buone o con le cattive, gli alieni dal District 9 al nuovo District 10 lontano dalla città e dagli umani.

Senza dilungarmi ulteriormente con la trama, i temi trattati da District 9 sono abbastanza chiari: segregazione razziale, xenofobia, deportazione e le pratiche delle multinazionali. Il riferimento all'apartheid e al District Six è lapalissiano.
Il film è girato in parte come un falso documentario, con interviste e intermezzi tratti da telegiornali e in parte con un lungometraggio normale. I primi 15/20 minuti del film introducono la storia del protagonista Wikus van de Merwe e sono nettamente il momento migliore del film: riuscono a creare con successo la tensione e l'aspettativa giusta nello spettatore. Poi il film si sfilaccia un po', soprattutto nella parte conclusiva che diventa troppo sparacchina.

District 9 è girato con mestiere, ha un bel montaggio e un bel gusto per le immagini e la costruzione delle inquadrature, e tratta con forse un pizzico di ingenuità temi comunque importanti, però non convince del tutto. Forse per colpa di un protagonista con cui è veramente difficile identificarsi, o magari per il quale anche solo provare un po' di compassione; è così imbecille che non si può non pensare che tutto quello che gli accade gli stia bene come un cappello nuovo. Anche gli alieni sono troppo impersonali e, a parte quello che fa da co-protagonista e suo figlio, il loro ruolo è troppo di contorno.
Alla fine il problema del film è nella sceneggiatura, che non approfondisce abbastanza il perché gli alieni siano così imbecilli da lasciarsi trattare a pesci in faccia quando potrebbero usare le loro armi per massacrare gli umani, o più semplicemente farli a pezzi a mani nude. Insomma, District 9 è il classico film da "Sì, bello, però..."

18 aprile 2010

Fish Tank

A volte capita di vedere un film che tratta di una realtà conosciuta superficialmente, ma di cui si ignorano i particolari. I primi minuti di Fish Tank sono, sotto questo punto di vista, abbastanza scioccanti, perché mostrano con crudo realismo la vita di quella fascia sociale che in Inghilterra è conosciuta come chav, e in particolare di Mia, una quindicenne scontrosa e sboccata che ha un rapporto di amore e rivalità con la giovane madre e la sorella più piccola e che si ritrova esclusa dal suo gruppo di amiche. L'arrivo in casa di un nuovo compagno della madre, interpretato dal come al solito ottimo Michael Fassbender e già protagonista di Hunger, manda all'aria il precario equilibrio della ragazzina, in lotta tra voglia di ribellione, affetto e gli ormoni adolescienziali.

La regista Andrea Arnold, vincitrice di un Oscar nel 2005 per il suo corto Wasp, ci mostra la vita dei protagonisti con un piglio quasi voyeristico che mette lo spettatore a disagio perché ci si sente testimoni di un qualcosa che dovrebbe essere privato. La storia è raccontata interamente dal punto di vista di Mia, niente è spiegato proprio perché Mia non ha bisogno di spiegare nulla, sa benissimo cosa le passa per la testa, mentre noi dobbiamo immaginare, comprendere e fare supposizioni. Ma questo non è un problema, anzi aggiunge valore al film e all'interpretazione dell'esordiente Katie Jarvis nel ruolo di Mia che è, senza mezza termini, semplicemente spettacolare.
La Jarvis fu scoperta da un'assistente della Arnold alla stazione di Tilbury, in Essex, mentre litigava da una piattaforma all'altra. L'assistente la seguì sul treno e le parlò del film e dopo una naturale diffidenza, Katie le telefonò e inizio la sequela di audizioni. Si potrebbe dire che la Jarvis si limita a recitare se stessa nel film, ma sarebbe stupido e ingiusto, perché la ragazza dimostra un talento non comune, comunicando con naturalezza l'aggressività e la dolcezza di Mia, il suo desiderio di indipendenza e ribellione e il suo bisogno di affetto e attenzione.

Più ci penso e più mi accorgo di quanto mi è piaciuto Fish Tank. Da vedere assolutamente, possibilmente in lingua originale per poter apprezzare la parlata dei protagonisti.

15 aprile 2010

Una vita a tempo di cinema

Ripubblico qui sul mio blog un post che ho scritto su un altro blog un po' di tempo fa. Non prende in considerazione quella mezza cagata di Zack & Miri e nemmeno Cop Out, che sembra essere pure peggio. E nemmeno le ultime sbroccate di Smith su Twitter a proposito delle [pessime] recensioni ricevute da Cop Out un po' ovunque.

--------

Ho appena visto di vedere Clerks 2. Mi è piaciuto tantissimo, ho riso di gusto e ha dei momenti davvero indimenticabili, ma non voglio parlare di questo.

Sull'ultima scena del film mi sono accorto del parallelo che la mia vita degli ultimi dieci, o poco più, anni ha avuto con i film di Kevin Smith. È quasi inquietante la precisione con cui le sue pellicole hanno scandito il passare del tempo ed è impressionante come, per tanti versi, il suo crescere, maturare e invecchiare sia stato anche il mio.

1994, Clerks. Il periodo del cazzeggio, degli anni passati all'università a fare finta di studiare, a dare esami controvoglia nel tentativo di prolungare la giovinezza. Il film è in fondo molto simile: sboccato, irriverente, divertente fino alle lacrime, ma con la stessa voglia di non crescere, di rimanere ragazzi ancora per un po' e di godersi la mancanza di responsabilità.








1995, Mallrats. Questo l'ho visto anni dopo l'effettiva uscita, in DVD quando ormai mi ero trasferito già a Londra, ed è probabilmente il film meno ispirato di Smith. Va bene, non c'entra abbastanza un cazzo con la mia vita, ma andava citato per dovere di cronaca.






1997, Chasing Amy. Uno dei miei film preferiti di tutti tempi. Ancora incazzoso, sboccato e con gemme comiche di rara bellezza ("You fucking tracer!" o "Now that, my friend, is a shared moment."), ma cominciano a sorgere i primi segni di maturità. Le riflessioni sui rapporti tra le persone e le perle di saggezza che Silent Bob elargisce nella tavola calda sono cose che non si dimenticano facilmente, e dimostrano come, nonostante non abbia perso la sua vena comica, Smith abbia cominciato a pensare ad altro.



1999, Dogma. Per me l'anno che ha segnato il cambiamento netto è stato il 2000: ad aprile mi sono comprato la moto, poi rivenduta pochi mesi dopo, a giugno mi sono trasferito a Milano per lavoro e a ottobre ho mollato baracca e burattini e mi sono trasferito a lavorare a Londra, dove ancora risiedo. E contemporanamente, o quasi, Smith affronta un tema "spesso" come la religione. A suo modo, certo, ma è evidente come il periodo delle domande e delle riflessioni sia ormai avviato e inarrestabile.



2001, Jay and Silent Bob Strike Back. Smith cerca di riportare in vita il genere delle slapstick comedy. Il film è una serie di citazioni di citazioni di citazioni prese dagli altri film di Smith, dai lavori altrui e da altri media come internet e la televisione. Ci prova quasi seriamente a tornare il ventenne o poco più che tirò fuori dal cilindro Clerks, ma la vena non è più quella di una volta. E io nel frattempo mi adattavo a colpi di pinte di birra al mio nuovo stile di vita e cercavo di fare il cazzone a mio modo.



2004, Jersey Girl. Questo è nettamente il film che ha marcato la maturazione di Smith, ormai sposato e con una figlia (o un figlio?).
Non so perché, ma mi è sempre sembrato il perfetto "seguito" spirituale di Chasing Amy. Se in quest'ultimo Ben Affleck doveva accettare il passato movimentato della non così lesbica Alyssa (You're dating Fingercuffs?! Holy fucking shit!), in Jersey Girl invece ha a che fare con questioni molto meno "esotiche" come una bambina da accudire, un padre che sta invecchiando e ha paura di morire da solo e il desiderio di inseguire il miraggio di una vita passata. I temi sono simili per certi versi, quello che è diverso è l'età del regista e dello spettatore.
Io non ho vissuto niente di simile, lo confesso, ma mi sono accorto di essere cambiato con Kevin Smith perché il film mi è piaciuto, e molto. E mi sono anche reso conto che un film del genere, ai tempi di Chasing Amy, così come Smith non lo avrebbe mai girato, io non lo avrei mai voluto guardare.


2006, Clerks II. Si torna al Quick Stop, e si torna con la mente a quegli anni. Per Dante e Randal si tratta di ricordare delle giornate scanzonate passate nel negozio (o sul tetto dello stesso a giocare a hockey e a bere Gatorade), per me si tratta di ripensare al 30 meno 1 di Storia del cinema perché non mi sono ricordato che cazzo di avvenimento storico veniva nominato nel newsreel con cui si apriva Citizen Kane (l'invasione della Baia dei Porci, per la cronaca) e a tanti altri episodi più o meno felici (ti ricorda niente Pieve Ligure, Andre?).
Un film su come tutto cambi e come tutto rimanga uguale, come a dire che, invertendo l'ordine degli addendi, il risultato non cambia. O forse il risultato può essere diverso se lo si vuole davvero.


Non sono mai stato interessato alle persone famose, ma Kevin Smith è forse l'unico che vorrei davvero conoscere, per scoprire se quanto sopra è solo frutto dell'ora in cui sto scrivendo o sei ci sia qualcosa di vero.
E intanto un grazie a quello che è probabilmente il mio regista preferito, non tanto per la qualità dei suoi film, che adoro, ma per come mi faccia pensare ai fatti e alle cose e fare le 5 del mattino per scrivere su un blog.

Buona notte, o buongiorno, a tutti voi, amanti dell'interspecies erotica.

13 aprile 2010

Heavy Rain

PREMESSA: cercherò in tutti i modi di evitare di fare rivelazioni inopportune sulla trama del gioco, ma il rischio che mi scappi qualcosa c'è. Lettore avvisato...

Mentirei sapendo di mentine se dicessi che non ero prevenuto nei confronti di Heavy Rain. Del resto, il lavoro precedente di David De Gruttola alias David Cage, Fahrenheit, si era rivelato una [mezza] cagata pazzesca: eh sì, perché dopo un ottimo inizio, il gioco e la storia andavano completamente in vacca, sprecando quanto di buono si era seminato prima. E quelli che se la tirano con proclami altisonanti non supportati dai fatti non mi sono particolarmente simpatici (Denis Dyack, sì, ce l'ho con te).

Quindi ho cominciato a giocarci aspettandomi il peggio del peggio, e invece confesso di essermi divertito e appassionato alla storia. Quel "giocarci" forse è un po' una parolona quando si tratta di Heavy Rain, che di elementi ludici veri e propri non ne ha molti, però alla fine possiamo anche fregarcene delle definizioni, di cosa è e cosa non è Heavy Rain, quello che conta è il risultato finale.

Analizzato nelle sue meccaniche di gioco, Heavy Rain ha dei difetti piuttosto fastidiosi e macroscopici. Il principale è sicuramente il controllo dei personaggi, che definire goffo e impacciato è poco; non siamo ai livelli di Resident Evil, ma poco ci manca. L'altro è l'interazione con l'ambiente: troppo, troppo spesso si muove un personaggio nelle vicinanze di un elemento interattivo alla ricerca della posizione perfetta che fa apparire l'agognata icona di attivazione, ricerca resa ancora più difficoltosa dal pessimo sistema di controllo di cui sopra. Quando poi ci si mette di mezzo pure la telecamera, che nasconde simpaticamente le suddette icone, le bestemmie scappano.
Questi difetti sono gravi di per sé, ma lo sono ancora di più nel contesto di un gioco che fa leva sul coinvolgimento emotivo del giocatore/spettatore perché spezzano la sospensione dell'incredulità e ci ricordano che abbiamo un pad in mano e non un coltellaccio da cucina.

E la storia? Diciamolo subito: ha dei buchi di sceneggiatura grossi come cocomeri e alcune parti sono scritte veramente coi piedi di un dilettante. Però ho finito Heavy Rain in meno di 24 ore, il che significa che, evidentemente, la vicenda e i personaggi mi hanno appassionato e spinto a voler vedere dove sarebbe andato a parare Cage.
A mente fredda, Cage di strada deve farne se vuole considerarsi uno... boh, diciamo sceneggiatore serio, ma ha fatto un deciso passo avanti rispetto a Fahrenheit. Come gioco, Heavy Rain mantiene una gradita coerenza dall'inizio alla fine, mentre narrativamente evita cadute di stile e gusto e, soprattutto, conserva una certa credibilità per tutta la sua durata e non va a impelagarsi in improbabili cospirazioni aliene e altre fesserie simili. Certo, non mancano i buchi di sceneggiatura e le situazioni stupide e/o scritte male (NUKE THE FRIDGE!), ma nel complesso Heavy Rain mi ha regalato delle ore di piacevole intrattenimento ed è un positivo passo avanti sulla strada della narrativa interattiva.

12 aprile 2010

Looking for Eric

Ovvero il film che non ti aspetti, soprattutto da uno come Ken Loach che non è esattamente famoso per le sue commedie.

Eric, non Cantona, è un postino tifoso del Manchester United la cui vita sta cadendo a pezzi e che trova un'ancora di salvezza nella presenza immaginaria al suo fianco di Eric Cantona, il suo grande idolo, con il non trascurabile aiuto delle canne. Cantona elargisce talvolta incomprensibili perle di saggezza, ma aiuta Eric a ritrovare il bandolo della sua vita.
Guardare Looking for Eric è stato proprio piacevole: un po' perché fa ridere di gusto, soprattutto nella prima oretta (da applausi la riunione di self-help del gruppo di amici), ma anche perché è un film con un bel messaggio positivo. Ok, magari un pochetto scontato, ma alla fine chi se ne frega, i film non devono per forza ammorbarci con verità rivelate per essere belli.

10 aprile 2010

The Host

Guardando questo film del 2006 diretto da Joon-ho Bong mi sono chiesto più volte per quale motivo i coreani sono così rincoglioniti in età adulta, mentre da bambini sembrano essere tanto svegli. Magari sarà qualcosa nell'acqua che bevono, vai a sapere.

Comunque, coreani poco svegli a parte, The Host è un film di mostri. Di un mostro, per la precisione, che salta fuori dal fiume Han in seguito all'inquinamento causato da non mi ricordo quale agente chimico e mette Seul, e i suoi poveri abitanti tonti, a soqquadro. The Host racconta anche di una famiglia problematica, un po' come quella di Little Miss Sunshine, e della loro ricerca della componente più giovane che, ovviamente, viene rapita dal mostrone. Il tutto sullo sfondo di una cospirazione governativa messa in piedi per nascondere al pubblico cosa sta accadendo davvero in città.

The Host mischia generi senza farsi troppi problemi, buttando nel mucchio orrore, commedia, azione, dramma e denuncia. Il passaggio da un genere all'altro non sempre funziona, soprattutto nella parte centrale del film che zoppica un po' per ritmo, ma il risultato è comunque un film che se ne batte le palle e continua imperterrito a fare casino, e riuscendo pure a mettere in piedi un dramma famigliare toccante e strappando più di una risata gustosa.

7 aprile 2010

I DLC, questa vituperata disciplina

A me i DLC, o contenuti aggiuntivi da scaricare dietro pagamento di somme più o meno consistenti di denaro, non stanno antipatici per principio. Mi danno fastidio quando li annunciano ancora prima che esca il gioco, quello sì, e quando sembrano roba spudoratamente tolta dal gioco per essere venduta a parte, come è successo con Resident Evil 5 o il finale di Prince of Persia. E non sono nemmeno uno di quelli che fanno la proporzione tra somma pagata per un gioco e la sua durata, come se i due valori dovessero essere per forza direttamente proporzionali.

Detto questo, ieri è uscito il primo DLC a pagamento di quel fottuto capolavoro che risponde al nome di Mass Effect 2, dedicato al dodicesimo personaggio reclutabile per il nostro gruppo, la ladra Kasumi Goto. Il prezzo è di 560 punti BioWare/Microsoft, che corrispondono a circa 4,50 sterline (il conto in euro fatevelo voi).
Dura quanto annunciato al tempo da BioWare, vale a dire un'ora abbondante. Nonostante la sua breve durata, questa missione aggiuntiva offre un'avventura autoconclusiva di ottima qualità, sia dal punto di vista meramente ludico che da quello narrativo. Kasumi è infatti un personaggio interessante, caratterizzato con abilità nonostante le tutto sommato poche battute che scambiamo con lei, e le sue motivazioni sono rese con un gradito tocco delicato.

Quando l'ho finito, ho pensato immediatamente "Di già?", ma poi mi sono reso conto che la reazione era dovuta al fatto che di ME2 non ne ho mai abbastanza. Dovrei ricominciarlo, ma non voglio creare un altro Shepard, il mio è quello che ha concluso con successo la missione suicida, e rifare tutto manderebbe all'aria il senso di continuità con il futuro ME3, che non uscirà mai abbastanza in fretta.

1 aprile 2010

Adventureland

Lui è un ventiduenne bruttino, intelligente, acculturato, serioso, impacciato con le ragazze e vergine. Lei è affascinante, interessante, piena di problemi personali ed esperta in campo sessuale.

Adventureland di Greg Mottola, già regista di Superbad, ha una trama che più classica, o scontata a seconda dei punti di vista, non si può. È un film pieno di buoni sentimenti e belle persone, con qualche battuta divertente qua e là, sullo sfondo di un parco giochi, l'Adventureland del titolo, del 1987.
I due protagonisti sono effettivamente bravi e il loro rapporto è credibile, anche se va detto che, purtroppo per lui, Eisenberg sembra già destinato a recitare per sempre lo stesso ruolo di sfigatino intellettuale (come in The Squid and The Whale o Zombieland). La buona colonna sonora aiuta decisamente a godersi il film, che non brilla certo per originalità, ma che si lascia comunque guardare piacevolmente nonostante la non certo breve durata di 106 minuti.
Adventureland è in effetti un bel film che evita di scadere nel melenso, non abusa di umorismo greve e ha un cast di attori e personaggi decisamente azzeccato, però non mi ha lasciato molto, a parte una leggera malinconia per quell'età. Ripensandoci mi viene quasi da pensare che ormai sono troppo vecchio per apprezzare davvero commedie come queste...
cookieassistant.com