Nato dalla collaborazione tra un fotografo inglese e un giornalista americano, Restrepo è uno sguardo impietoso e senza filtri su quello che passano i soldati americani in Afghanistan e che immagino non si discosti molto dalla vita dei soldati impegnati altrove. I protagonisti sono i 49 membri della Battle Company dei marine americani, impegnati per 15 lunghi mesi nella valle di Korengal, tristemente famosa per essere la località più pericolosa di tutto l'Afghanistan, e in particolare i 15 membri assegnati all'avamposto Restrepo, chiamato così in onore del primo membro della squadra ucciso.
Senza la benché minima struttura narrativa, il documentario alterna scene di combattimento e di vita quotidiana alle interviste fatte ai sopravvissuti. Le scene di combattimento sono terribili nel loro crudo realismo e fanno realizzare quanto false siano tutte le fesserie che ci rifilano giochi come Call of Duty e soci: i combattimenti si svolgono contro nemici invisibili, talvolta lontani centinaia di metri, altre volte così vicini da poterli sentire. Nemici che hanno il vantaggio di conoscere alla perfezione l'area, mentre gli americani hanno poche e incomplete informazioni e lottano quasi alla cieca. Per quanto sia difficile commiserare gente come il capitano della squadra, le interviste agli altri membri del plotone, la maggior parte dei quali sono poco più che ragazzi, fanno solo intuire quali cicatrici possano lasciare 15 mesi passati sotto la costante minaccia di un nemico invisibile.
Il documentario mostra anche quanto inefficace e inadeguata sia la tattica degli americani, che affida ai soldati il compito di trattare con la popolazione locale, nel vano tentativo di convincerli a collaborare con loro, in cambio di promesse di fantomatici lavori e strade. E quanto altrettanto inadeguato sia il supporto post-missione per i soldati, molti dei quali sono chiaramente affetti da disturbi post traumatici da stress.
Restrepo suscita sentimenti contrastanti, tra il rifiuto per la guerra e la compassione per i soldati, impegnati a combattere una guerra che non possono vincere, e, sebbene gli autori abbiano sempre dichiarato che non abbia intenzioni politiche, è un chiaro omaggio ai marine e al lavoro che svolgono quotidianamente. Si potrà non condividere le loro motivazioni, ma è difficile rimanere impassibili di fronte alle loro vicende e ai loro racconti.
A margine, va ricordato che Restrepo era giustamente tra i candidati all'Oscar di quest'anno nella categoria per il miglior documentario.
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