Film giapponese del 2008, 130 minuti di durata, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero nel 2009, il protagonista è un violoncellista fallito che torna nella sua cittadina natale e comincia a lavorare per una ditta specializzata nella preparazione rituale dei cadaveri prima della loro cremazione.
A leggere queste informazioni, verrebbe da pensare che Departures sia un mattone indicibile, e invece è un film drammatico che non lesina sull'umorismo un po' macabro e sul melenso. Lo svolgimento del film è tutto sommato prevedibile, ma la cosa non infastidisce perché la fotografia e la regia sono perfette e i quattro personaggi principali sono interpretati ottimamente dai loro rispettivi attori, con la parziale eccezione della moglie del protagonista Daigo, così insopportabilmente giapponese in alcuni momenti che verrebbe voglia di prenderla a ceffoni.
Il rito della preparazione dei cadaveri è riprodotto con una attenzione e un rispetto per quello che rappresenta palpabili e le scene che ce lo mostrano sono probabilmente i momenti migliori del film, grazie anche ai silenzi che esprimono così bene le psicologie di Daigo e del suo capo, un uomo di poche, ma sagge parole. L'ottima colonna sonora si sposa egregiamente con le immagini, anche se talvolta cerca con un po' troppa insistenza di farti commuovere, come se vedere un marito affranto per la perdita della moglie non sia abbastanza triste di per sé.
È negli ultimi 10 minuti che Departures prende una piega davvero troppo prevedibile ed eccede nel buonismo, e confesso che alla fine del film ho avuto la sensazione che l'Oscar fosse un po' troppo, ma rimane comunque il fatto che Departures è un film che, nonostante l'argomento tutt'altro che allegro, scalda il cuore perché è una delicata celebrazione della vita e un'accettazione dell'ineluttabilità della morte.
Appunti sparsi su cinema, libri, musica, videogiochi e quant'altro mi passa per la testa
25 giugno 2010
22 giugno 2010
Synecdoche, New York
Con i mondiali di calcio in corso, di tempo e voglia per guardare film non ne ho avuti granché, ed è per questo ultimamente non ho scritto molto sul blog, ma ieri sera sono riuscito a vedere Synecdoche, New York, scritto e diretto dal Charlie Kaufman autore di, tra le altre cose, Being John Malkovich ed Eternal Sunshine of a Spotless Mind (mi rifiuto di usare il titolo italiano), all'esordio dietro la macchina da presa in questo caso.
Synecdoche, New York è la storia di Caden Cotard, interpretato dal come al solito bravissimo Philip Seymour Hoffman, un autore teatrale che si lancia nella scrittura di una mastodontica pièce di, nelle sue parole, brutale onestà e la cui realizzazione durerà per circa 40 anni. Lo sviluppo dello spettacolo è legato a doppia mandata alla vita di Cotard, che include se stesso, interpretato da un attore, e tutte le persone che gli gravitano attorno nel cast di personaggi, in quello che sembra un osservare dall'esterno la sua esistenza travagliata nel tentativo di ricomporne i pezzi e ritrovare un barlume di serenità.
In realtà, tutto il film è una enorme, complicata riflessione sui ruoli che come individui assumiamo nel corso della nostra vita, di quello che pensiamo di essere e di come vediamo gli altri, delle direzioni che le nostre esistenze prendono contrariamente ai nostri desideri. Lo spettacolo teatrale di Cotard è una splendida rappresentazione visiva di tutto questo, della compartimentazione a cui sottoponiamo le nostre vite e confonde continuamente la linea che divide la realtà di Cotard dalla sua immaginazione.
Mi piacerebbe un sacco potermi bullare con tutti di aver capito fino in fondo questo film, ma mentirei. Del resto, le sceneggiature di Kaufman non sono mai immediate e i film che ne escono si prestano a visioni multiple per poter apprezzare maggiormente i numerosi livelli di lettura che si scoprono avventurandosi sempre di più nei loro meandri narrativi e nelle menti dei personaggi. Ciò di cui però sono sicuro è che Synecdoche, New York è un film bellissimo, senza forse essere del tutto certo del perché, senza dubbio altero nello sviluppo e nella narrazione, ma che non manca di lasciare a bocca aperta per le situazioni del tutto inaspettate e per la bellezza dei suoi personaggi, i suoi dialoghi e della sua messa in scena.
Synecdoche, New York è la storia di Caden Cotard, interpretato dal come al solito bravissimo Philip Seymour Hoffman, un autore teatrale che si lancia nella scrittura di una mastodontica pièce di, nelle sue parole, brutale onestà e la cui realizzazione durerà per circa 40 anni. Lo sviluppo dello spettacolo è legato a doppia mandata alla vita di Cotard, che include se stesso, interpretato da un attore, e tutte le persone che gli gravitano attorno nel cast di personaggi, in quello che sembra un osservare dall'esterno la sua esistenza travagliata nel tentativo di ricomporne i pezzi e ritrovare un barlume di serenità.
In realtà, tutto il film è una enorme, complicata riflessione sui ruoli che come individui assumiamo nel corso della nostra vita, di quello che pensiamo di essere e di come vediamo gli altri, delle direzioni che le nostre esistenze prendono contrariamente ai nostri desideri. Lo spettacolo teatrale di Cotard è una splendida rappresentazione visiva di tutto questo, della compartimentazione a cui sottoponiamo le nostre vite e confonde continuamente la linea che divide la realtà di Cotard dalla sua immaginazione.
Mi piacerebbe un sacco potermi bullare con tutti di aver capito fino in fondo questo film, ma mentirei. Del resto, le sceneggiature di Kaufman non sono mai immediate e i film che ne escono si prestano a visioni multiple per poter apprezzare maggiormente i numerosi livelli di lettura che si scoprono avventurandosi sempre di più nei loro meandri narrativi e nelle menti dei personaggi. Ciò di cui però sono sicuro è che Synecdoche, New York è un film bellissimo, senza forse essere del tutto certo del perché, senza dubbio altero nello sviluppo e nella narrazione, ma che non manca di lasciare a bocca aperta per le situazioni del tutto inaspettate e per la bellezza dei suoi personaggi, i suoi dialoghi e della sua messa in scena.
10 giugno 2010
Breathless
Che genere di film sia Breathless lo si capisce sin dalla primissima scena: un uomo sta picchiando per non si sa quale motivo una donna in mezzo alla strada. Arriva un altro uomo, il protagonista Sang-Hoon, in aiuto della donna e pesta il primo tizio; poi prende a schiaffi la ragazza e le chiede perché si lascia trattare così per poi finire colpito in testa alle spalle. Cut, scena successiva.
Scritto, diretto, interpretato e prodotto da Yang Ik-Joon, all'esordio alla regia, questo film coreano del 2009 è uno di quelli quasi dolorosi da guardare da quanto tormentati sono i suoi personaggi e quanto violenta e cruda è la vicenda narrata. Sang-Hoon lavora per un società di recupero crediti ed è bravissimo perché non si fa remore di nessun tipo a gonfiare di botte e insultare chiunque; ma non lo fa per piacere, lo fa perché non sembra essere in grado di rapportarsi in nessun altro modo con gli altri, persino con i suoi famigliari e il nipotino di 3 anni. È un personaggio perfetto per essere odiato, violento e indisponente, ma con alle spalle un passato tormentato che giustifica, seppure solo in parte, la sua personalità. Sarà l'incontro/scontro con Yeon-Hue, una studentessa delle scuole superiori con la sua storia di violenza domestica, a dare inizio a un percorso di redenzione per entrambi, alla ricerca di quel calore umano che manca dalle loro vite, l'unica cosa in grado di salvarli dalla disperazione e l'autodistruzione.
Nonostante pecchi di inesperienza in alcuni frangenti, Yang Ik-Joon dirige un film incredibilmente solido, il cui unico vero difetto è forse la lunghezza di 130 minuti che poteva essere inferiore. Ciò non toglie che Breathless racconti in maniera meravigliosamente dolorosa e toccante di un ciclo di violenza domestica che si avvolge su stesso e che va a influenzare le vite di tutti i coinvolti. Ik-Joon e Kot-bi Kim nella parte della ragazzina sono bravissimi e comunicano con grande efficacia il tormento interiore dei loro protagonisti e caricano di significati le parolacce che riempono i loro dialoghi. E Sang-Hoon e Yeon-Hue sono due protagonisti che lasciano il segno, un po' come Mia di Fish Tank, e che elevano Breathless al rango di piccola grande, e imperdibile, gemma cinematografica.
Scritto, diretto, interpretato e prodotto da Yang Ik-Joon, all'esordio alla regia, questo film coreano del 2009 è uno di quelli quasi dolorosi da guardare da quanto tormentati sono i suoi personaggi e quanto violenta e cruda è la vicenda narrata. Sang-Hoon lavora per un società di recupero crediti ed è bravissimo perché non si fa remore di nessun tipo a gonfiare di botte e insultare chiunque; ma non lo fa per piacere, lo fa perché non sembra essere in grado di rapportarsi in nessun altro modo con gli altri, persino con i suoi famigliari e il nipotino di 3 anni. È un personaggio perfetto per essere odiato, violento e indisponente, ma con alle spalle un passato tormentato che giustifica, seppure solo in parte, la sua personalità. Sarà l'incontro/scontro con Yeon-Hue, una studentessa delle scuole superiori con la sua storia di violenza domestica, a dare inizio a un percorso di redenzione per entrambi, alla ricerca di quel calore umano che manca dalle loro vite, l'unica cosa in grado di salvarli dalla disperazione e l'autodistruzione.
Nonostante pecchi di inesperienza in alcuni frangenti, Yang Ik-Joon dirige un film incredibilmente solido, il cui unico vero difetto è forse la lunghezza di 130 minuti che poteva essere inferiore. Ciò non toglie che Breathless racconti in maniera meravigliosamente dolorosa e toccante di un ciclo di violenza domestica che si avvolge su stesso e che va a influenzare le vite di tutti i coinvolti. Ik-Joon e Kot-bi Kim nella parte della ragazzina sono bravissimi e comunicano con grande efficacia il tormento interiore dei loro protagonisti e caricano di significati le parolacce che riempono i loro dialoghi. E Sang-Hoon e Yeon-Hue sono due protagonisti che lasciano il segno, un po' come Mia di Fish Tank, e che elevano Breathless al rango di piccola grande, e imperdibile, gemma cinematografica.
5 giugno 2010
Away We Go
A me il libro d'esordio di Dave Eggers, A Heartbreaking Work of Staggering Genius, non è piaciuto. Il protagonista mi stava troppo sulle palle, non sono proprio riuscito a farmelo piacere, e così mi ha rovinato la lettura. Nonostante questo ho deciso lo stesso di guardare Away We Go, scritto a quattro mani da Eggers e Vendela Vida, che sono una coppia sposata e hanno due figli, e diretto da Sam Mendes.
I protagonisti sono Burt e Verona, una coppia in attesa del loro primo figlio. L'evento spinge i due trentenni alla ricerca di una nuova casa dove crescere il nascituro perché il loro stile di vita da studenti troppo cresciuti mal si adatterebbe a un bimbo piccolo. Ne nasce così una specie di road movie, con i due che visitano Phoenix, Tucson, Montreal e Miami per rimettersi in contatto con amici e parenti nel tentativo di trovare un luogo dove i due quasi-genitori possano sentirsi davvero a casa, un viaggio che invece mostra loro solo perfetti esempi di come non vogliono crescere la loro famiglia.
Burt e Verona, ottimamente interpretati da John Krasinski e Maya Rundolph, sono due belle persone: intelligenti, creativi, felicemente innamorati l'uno dell'altra. Forse sono troppo di tutto questo per essere veri, ma alla fine chi se ne frega. È anche bello vedere film di persone che sembrano migliori di noi, che magari hanno qualcosa da insegnarci e sono davvero interessanti. E il film che ce li fa conoscere è una commedia tenera e divertente che ci fa sentire meglio, grazie anche all'ottima fotografia e a una colonna sonora azzeccata.
I protagonisti sono Burt e Verona, una coppia in attesa del loro primo figlio. L'evento spinge i due trentenni alla ricerca di una nuova casa dove crescere il nascituro perché il loro stile di vita da studenti troppo cresciuti mal si adatterebbe a un bimbo piccolo. Ne nasce così una specie di road movie, con i due che visitano Phoenix, Tucson, Montreal e Miami per rimettersi in contatto con amici e parenti nel tentativo di trovare un luogo dove i due quasi-genitori possano sentirsi davvero a casa, un viaggio che invece mostra loro solo perfetti esempi di come non vogliono crescere la loro famiglia.
Burt e Verona, ottimamente interpretati da John Krasinski e Maya Rundolph, sono due belle persone: intelligenti, creativi, felicemente innamorati l'uno dell'altra. Forse sono troppo di tutto questo per essere veri, ma alla fine chi se ne frega. È anche bello vedere film di persone che sembrano migliori di noi, che magari hanno qualcosa da insegnarci e sono davvero interessanti. E il film che ce li fa conoscere è una commedia tenera e divertente che ci fa sentire meglio, grazie anche all'ottima fotografia e a una colonna sonora azzeccata.
2 giugno 2010
Anvil! The Story of Anvil
Nel 1984 quattro gruppi heavy metal fecero un tour promozionale in Giappone. Di quei quattro, Scorpions, Bon Jovi e Whitesnake diventarono famosi in tutto il mondo, mentre il quarto, gli Anvil del titolo, no.
Inizia così questo documentario sugli Anvil, riconosciuti dai loro colleghi come un gruppo musicale con una grande influenza sul genere, ma che non raggiunse mai la fama internazionale che sembrava meritare. Il regista Sacha Gervasi, anche autore del soggetto di The Terminal e fan della band, segue i due fondatori del gruppo, Steve "Lips" Kudlow e Robb Reiner, nella loro ricerca disperata di quel sogno di gloria inseguito da ormai circa trent'anni. Amici fin dall'adolescenza e ancora parte degli Anvil, Kudlow e Reiner non hanno mai smesso di tentare di sfondare sul serio, nonostante i ripetuti fallimenti. Il documentario ce li mostra nella loro vita di tutti giorni a casa in Canada, li segue in un disastroso tour europeo, fino alla registrazione di un nuovo album, la ricerca di un'etichetta disposta a pubblicarlo e un nuovo concerto a un festival heavy metal in Giappone.
Anche se qualche dubbio sul fatto che sia interamente reale c'è, Anvil è un documentario con un cuore, per molti versi simile a The Wrestler. Se all'inizio è naturale provare compassione per due uomini di mezza età ai quali il buon senso suggerisce ormai da tempo di appendere chitarra e bacchette al chiodo, andando avanti è impossibile non ammirare la determinazione e, perché no, l'ingenuità con la quale Kudlow e Reiner, amici da più di trent'anni, non mollano e continuano a inseguire il loro sogno, convinti che le speranze non abbiano una data di scadenza. Anvil ha dei momenti di umorismo genuino, ma riesce anche a commuovere con momenti di sentimentalismo certamente telefonato, ma che non mancano di colpire.
Nota di colore: Tiziana, la manager italiana del disastroso tour europeo, che parla un inglese pessimo, ma che bestemmia in italiano in più di un'occasione. Da applausi.
Inizia così questo documentario sugli Anvil, riconosciuti dai loro colleghi come un gruppo musicale con una grande influenza sul genere, ma che non raggiunse mai la fama internazionale che sembrava meritare. Il regista Sacha Gervasi, anche autore del soggetto di The Terminal e fan della band, segue i due fondatori del gruppo, Steve "Lips" Kudlow e Robb Reiner, nella loro ricerca disperata di quel sogno di gloria inseguito da ormai circa trent'anni. Amici fin dall'adolescenza e ancora parte degli Anvil, Kudlow e Reiner non hanno mai smesso di tentare di sfondare sul serio, nonostante i ripetuti fallimenti. Il documentario ce li mostra nella loro vita di tutti giorni a casa in Canada, li segue in un disastroso tour europeo, fino alla registrazione di un nuovo album, la ricerca di un'etichetta disposta a pubblicarlo e un nuovo concerto a un festival heavy metal in Giappone.
Anche se qualche dubbio sul fatto che sia interamente reale c'è, Anvil è un documentario con un cuore, per molti versi simile a The Wrestler. Se all'inizio è naturale provare compassione per due uomini di mezza età ai quali il buon senso suggerisce ormai da tempo di appendere chitarra e bacchette al chiodo, andando avanti è impossibile non ammirare la determinazione e, perché no, l'ingenuità con la quale Kudlow e Reiner, amici da più di trent'anni, non mollano e continuano a inseguire il loro sogno, convinti che le speranze non abbiano una data di scadenza. Anvil ha dei momenti di umorismo genuino, ma riesce anche a commuovere con momenti di sentimentalismo certamente telefonato, ma che non mancano di colpire.
Nota di colore: Tiziana, la manager italiana del disastroso tour europeo, che parla un inglese pessimo, ma che bestemmia in italiano in più di un'occasione. Da applausi.
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