La mia ricerca sulla relatività dello scorrere del tempo continua. Il nuovo caso a sostegno di questa teoria è Un prophète, filmone francese di 155 minuti che agli ultimi César, gli Oscar del cinema francese, ha raccolto la bellezza di nove premi. Quando, per pura curiosità, ho controllato quanto tempo era passato dall'inizio del film, il display indicava un'ora e 45 minuti... più dell'intera durata di un Sin Nombre a caso!
Mettendo da parte tutto l'odio atavico e calcistico che si può avere per i francesi, bisogna ammettere che Un prophète è un film clamorosamente bello, decisamente uno dei più belli che ho visto degli ultimi anni. Intanto non annoia mai, nonostante abbia pochi momenti di azione vera e propria e sia ambientato per larga parte in un carcere. È intenso come raramente accade, con alcune scene che creano una tensione davvero palpabile, grazie anche alle ottime interpretazioni di tutto il cast, Tahar Rahim nel ruolo del protagonista Malik e Niels Arestrup nel ruolo del boss corso in testa. E poi riempe i 155 minuti di durata con contenuti e spunti di riflessione etici e morali.
Il protagonista Malik è un diciannovenne francese di origini arabe condannato a sei anni di carcere per un non meglio specificato reato. Il film lo segue nella sua crescita come persona e come delinquente, due percorsi che vanno di pari passo. Da un lato noi spettatori stiamo male a vederlo trattato male dagli altri carcerati, ma dall'altro ci rendiamo conto che, per sopravvivere, Malik deve diventare come e peggio di loro. Il regista Audiard mischia continuamente le carte sotto questo punto di vista, lasciando a noi la decisione se "fare il tifo" per Malik oppure disapprovare il suo comportamento.
Il risultato è un film che narra della trasformazione da ragazzo a uomo di Malik, nel contesto sociale del carcere e di una Francia alle prese con gli scontri malavitosi e non tra gruppi etnici.
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